GLOBALIZZAZIONE

 

 

 

LE RELAZIONI CONTRATTUALI

 

 

 

LA DIMENSIONE EUROPEA

 


 

 

Dott. Federico Roberto Antonelli

 Il 26 dicembre 2009, è stata approvata dal Comitato permanente del Assemblea del popolo cinese (il parlamento cinese), la prima normativa organica in materia di responsabilità civile; normativa che andrà ad integrare le disposizioni in materia di responsabilità extracontrattuale già emanate dal legislatore negli ultimi 30 anni e specialmente quelle contenute nella Legge (fondamentale) sui principi generali dei diritto civile del 1986, nella Legge sui diritti e gli interessi dei consumatori  del 1993 e nella Legge sulla sicurezza del traffico stradale 2003. Il testo legislativo da ultimo approvato, è stato il risultato di un lungo dibattito politico e accademico che ha portato alla formulazione di ben 3 progetti di legge diversi.
Partendo da una breve esposizione  del quadro normativo e giurisprudenziale in materia di responsabilità civile in Cina e dei contenuti della Legge, divisa in 96 articoli e comprendente specifici capitoli che regolano rispettivamente le responsabilità per i danni provocati da prodotto difettoso, da circolazione stradale, da responsabilità medica, da inquinamento ambientale, dall’uso di materiali altamente pericolosi, da animali domestici, il paper intende mettere in luce, in prospettiva comparativa, le soluzioni adottate dalla legge, facendo riferimento ai cambiamenti subiti dal progetto di legge, dalla sua prima formulazione nel 2002 a quello da ultimo approvato nel dicembre 2009, con un’attenzione particolare al dibattito sviluppatosi in seno al mondo accademico e politico cinese e ai principali nodi economico sociali che si è trovato di fronte il legislatore cinese ed una valutazione critica delle soluzioni che si è inteso adottare.

 

Dott.ssa Rossella Cerchia

Negli ultimi anni nel nostro ordinamento si è assistito ad un rinnovato interesse scientifico per la parte generale del contratto, quasi che la “vera disciplina” dei contratti andasse ivi ricercata.

Viceversa, l’attenzione verso la parte speciale dei singoli contratti sembra esaurirsi, dopo aver vissuto, in special modo negli anni Ottanta, un periodo di grande vivacità.

Lo stesso processo sembra attuarsi anche nell’Unione Europea, dove lo studio della disciplina generale del contratto, anche sotto la spinta della Commissione Lando e dei suoi Principles of European Contract Law, ha un ruolo di primo piano. Del resto regole e principi di ampio respiro permettono più facilmente di identificare una base giuridica condivisa da operatori di differenti sistemi e d’altro canto consentono di sottrarsi alla specificità delle differenti legislazioni nazionali. Giova osservare come tale tendenza sia propria del ceto dei giuristi, mentre, al contrario, nel processo di elaborazione iniziale del Common Frame of Reference, gli stakeholder chiesero che ogni parte speciale fosse autosufficiente, ovvero che ogni parte dedicata ad un singolo contratto fosse redatta in forma completa, in modo da non richiedere continuamente correlazioni con la parte generale. Questa istanza non sembra essere stata accolta e nel DCFR grande spazio è lasciato alla parte generale e alle correlazione tra essa ed i singoli contratti.

Tradizionalmente nel diritto inglese la distinzione tra i principi generali del contratto e le norme relative al singolo contratto ha un minor peso rispetto alle tradizioni di Civil Law, anche se, come è noto, la common law sovente conosce e dibatte di medesime problematiche. Ne è riprova, come nuova gradual convergent tra la civil e la common law, il fatto che negli ultimi anni molta attenzione sia stata indirizzata allo studio della law of contract, quella parte che del diritto di common law studiata come la parte generale del contratto. 

Certo il problema del coordinamento delle norme generali del contratto con quelle speciali non è un problema nuovo nel nostro panorama giuridico, in quanto il nostro codice è proprio strutturato con una parte relativa al contratto in generale seguita dalla disciplina dei singoli contratti. Ciò accade anche in codici precedenti, come il Code Civil e il BGB, e anche in codici recenti come il NBW, il Code civil du Quebec e il Codigo Civil brasiliano. Anche a livello di “codici modelli” i Principles of European Contract Law (PECL), il Draft of the Common Frame of References e il Code Européen des Contracts sono strutturati nello stesso modo.

Il novum che giustifica l’interesse per il tema è dato essenzialmente dal fatto che l’evoluzione del diritto privato europeo ha indotto a porre il problema del rapporto tra parte generale e parte speciale nel senso di necessaria armonizzazione di quest’ultima ai principi ed ai precetti generali della prima e non nel senso di deroga in base al vecchio criterio per cui la norma speciale deroga a quella generale.

Nella parte relativa al contratto in generale, le problematiche maggiori si riscontrano nella formazione e nello scioglimento del contratto, e proprio su quest’ultima disciplina voglio concentrare la mia attenzione, mettendola in relazione con la disciplina speciale dello scioglimento del contratto di mandato.

Il trend secondo cui per risolvere i problemi dei singoli contratti bisogna guardare alla disciplina del contratto in generale inizia a mostrare delle falle ad esempio quando guardiamo alla law of agency del diritto inglese, la quale non implica necessariamente la law of contract. Nel sistema francese la risoluzione per inadempimento del contratto è tendenzialmente ope judicis anche in virtù del noto principio secondo il quale il contratto ha forza di legge tra le parti. Questo sistema non trova però applicazione per il contratto di mandato, che si trova quindi al di fuori della categoria generale, visto che il mandante ha il potere di risolvere il mandato by notice con la revoca e il controllo del giudice può avvenire ex post. Nelle tendenze europee la risoluzione per inadempimento del contratto è by notice e il controllo giudiziale può avvenire ex post sull’esistenza della giusta causa per risolvere il contratto medesimo. In questo senso c’è una confluenza con il sistema del mandato, dove il mandante può risolvere il contratto di mandato, ed ex post è possibile un controllo giudiziale per accertare l’esistenza di una giusta causa, mancando la quale il mandatario può avere diritto al risarcimento del danno subito.

Tutte queste tendenze europee devono essere analizzate, anche per comprendere se il mandato sia pronto o meno per essere riassorbito nella parte generale del contratto o è meglio che ne rimanga fuori.

Io mi propongo di indagare, al fine di non cadere in “trappole generaliste”, seguendo le indicazioni di Gino Gorla che si scagliava contro i malefici effetti della tendenza alle generalizzazioni proprie dei giuristi di civil law, proprio il rapporto tra lo scioglimento del contratto in generale e lo scioglimento del contratto di mandato, la rupture du mandat e la termination of agency.

 

 

Dott. Luca Cruciani

Lo scopo della presente ricerca è quello di inserire “l’avventura delle clausole generali” nel processo di costruzione delle diverse tradizioni giuridiche mondiali.

Il lavoro quindi colloca le clausole generali che operano nel diritto dei contratti (principalmente ordine pubblico, buon costume, buona fede) sullo sfondo di tre fondamentali fasi storico-giuridiche, definite “globalizzazioni”: il pensiero giuridico classico, il sociale, il pensiero giuridico contemporaneo. Ogni periodo vede la formazione di una coscienza giuridica (legal consciousness) mondiale, fatta di idee-guida che si connotano diversamente a seconda dell’area in cui si formano: ogni globalizzazione ha un centro da cui si irradia e una periferia che recepisce, adattandolo, il modello che riceve.

La prima globalizzazione (metà del XIX secolo - inizi del XX) si identifica nel “pensiero giuridico classico” (Classical Legal Thought). Questa legal consciousness intende il diritto come una serie di sfere di autonomia e trova le sue colonne portanti nella teoria della volontà e nella tensione verso l’individualismo. Uno scenario di questo tipo condiziona la vicenda europea delle clausole generali: esse hanno una funzione e un’importanza residuali; sono confinate nelle singole disposizioni dei codici che le prevedono e le loro applicazioni riguardano principalmente ordine pubblico, buon costume e buona fede. Il pensiero giuridico angloamericano, in questo periodo, è dominato dai principles, soprattutto il principio di free will and private autonomy e la dicotomia ‘rules vs. standards’, che rappresenta il corrispondente angloamericano del dibattito sulle clausole generali, non ha ancora preso forma. Si può comunque riscontrare un frequente ricorso alle rules, soprattutto per l’influenza del formalismo giuridico di Langdell.

I primi settant’anni del secolo appena trascorso vedono delinearsi una seconda globalizzazione. In questa nuova fase, la parola d’ordine è il sociale (The Social). Ciò che si diffonde è un modo di pensare al diritto come ad un’attività finalisticamente orientata, come ad un mezzo per realizzare uno scopo di carattere sociale. Viene a crearsi una relazione di interdipendenza tra la dinamica giuridica e il contesto sociale in cui la regola opera. Tutto questo determina una vera e propria esplosione delle clausole generali, utilizzate per la tutela degli interessi delle classi disagiate. In Europa, oltre ad un potenziamento delle applicazioni delle clausole dell’epoca precedente, emerge la figura dell’abuso del diritto; nell’area di common law e in America, soprattutto, si ha una netta prevalenza degli standards sulle rules (Uniform Commercial Code, Restatement second of contracts).

La terza globalizzazione (metà del XX secolo fino ad oggi) diffonde il pensiero giuridico contemporaneo (Contemporary Legal Thought). Esso sembra costituito dalla problematica unione di elementi delle fasi precedenti, quali il bilanciamento degli interessi e il ricorso al neo-formalismo. In Europa, le clausole generali, da strumenti di protezione  delle classi deboli, si convertono in forme di tutela degli interessi del mercato. Emblematico, in tal senso, è l’esempio dell’ordine pubblico: da forma di tutela dell’interesse generale, esso diviene strumento di conservazione del contratto. In questo momento (metà del secolo scorso), inoltre, le clausole generali che operano a livello nazionale cominciano a confrontarsi con i c.d. nuovi principi di diritto comunitario: ordine pubblico e buon costume sembrano trovare una “proiezione europea” nel principio di dignità (casi francesi e tedeschi in materia di “lancio del nano” e di prostituzione), mentre la buona fede si collega idealmente alla ragionevolezza (l'art. 1:302 PECL). Nei primi decenni del ventesimo secolo, soprattutto negli Stati Uniti, sorge la consapevolezza della dicotomia rules – standards e delle varie conseguenze che ad essa si associano, sia sul piano della tecnica legislativa, sia sul fronte della distribuzione del potere tra legislatore e giudice.  Qual è il ruolo delle clausole generali in America? Anche in questo caso si tratta di forme di strutturazione del mercato? Emblematico il caso dell’unconcionability: la sua sfera di operatività è passata dal singolo contratto alle condizioni generali di contratto.

 

 

Dott. Matteo Ferrari

Scopo della presentazione è illustrare il ruolo che il contesto socio-culturale svolge nel modellare il processo di mutamento giuridico. Solitamente gli studiosi di diritto privato comparato concentrano la propria attenzione sui problemi che le norme si propongono di risolvere all’interno di un sistema giuridico. Il contesto in termini di valori e pratiche sociali costituisce lo sfondo cui spesso si concede solo un’attenzione distratta. In altri termini, il metodo oggi prevalente è di tipo funzionalista: ad essere comparate sono le funzioni svolte dalle norme. Ma uno studio attento del contesto socio-culturale può fornire un prezioso aiuto nel comprendere le ragioni che hanno spinto un sistema ad implementare alcune norme e non altre. Prendendo a riferimento i più recenti sviluppi in materia di percezione del rischio offerti dalle scienze cognitive e sociali, la presentazione intende esplorare il ruolo svolto dalla cultura, lato sensu intesa, nel plasmare le risposte approntate da tre sistemi giuridici (statunitense, giapponese e comunitario europeo) chiamati ad affrontare la crisi della c.d. mucca pazza, una delle maggiori emergenze nel campo della sicurezza alimentare sperimentate negli ultimi decenni. Sviluppando un case-study che ponga in esponente le diverse reazioni, regolamentari e risarcitorie, attuate nei tre ordinamenti richiamati, si cercherà di dimostrare come le politiche d’intervento a tutela della salute pubblica siano influenzate in modo significativo dal contesto socio-culturale all’interno del quale gli operatori giuridici agiscono.

 

 

Dott.ssa Michaela Giorgianni

La frammentarietà del diritto dei consumatori ha determinato a livello comunitario e nazionale l’esigenza di procedere ad una sistemazione della materia. Ma la scelta fra l’emanazione di leggi speciali, l’adozione di un codice di settore e l’integrazione delle nuove regole all’interno del codice civile, più che costituire un problema di collocazione normativa, investe i rapporti fra diritto dei consumatori e diritto privato generale.

Invero, se la nuova normativa rimane ancorata alla figura del consumatore bisognoso di particolare protezione rispetto al professionista e ad una disparità di potere, presunta o concreta, fra le parti, essa determina una “rottura” del sistema, perché si pone in una posizione autonoma ed antagonista accanto alle regole di diritto privato generale. Così nell’ordinamento italiano il Codice del Consumo ha tentato una sistemazione che garantisca una maggiore coerenza interna; ma la scelta per un codice di settore accanto al codice civile finisce per non differire da quella per una serie di leggi speciali, se introduce regole e principi autonomi, diretti alla protezione del consumatore, e non segue il diritto privato generale. Permane quindi una separazione di sistemi, generale e speciale, che esprimono concezioni diverse di tutela. Nell’ordinamento tedesco, invece, con la modernizzazione dello Schuldrecht, il diritto dei consumatori è stato “integrato” nel BGB e si è parlato di “Europäisierung” del codice nazionale. Ma la semplice incorporazione del diritto dei consumatori nel codice civile non consente di creare un coordinamento fra i due sistemi, generale e speciale, né costituisce una sufficiente ragione di coerenza e compatibilità delle nuove regole con quelle generali; e la stessa introduzione della nozione di consumatore non abbandona una concezione del diritto frazionato per gruppi particolari di soggetti, ma evidenzia soltanto la specialità e la separazione delle regole del diritto dei consumatori rispetto al diritto privato generale.

D’altra parte, la sistemazione delle norme dei consumatori in un codice di settore o nel codice civile non ha portato sempre ad una maggiore coerenza interna della materia. Così le regole sull’informazione e sulla trasparenza nel BGB e nel Codice del Consumo riflettono  l’origine comunitaria della normativa, che non ha reso possibile addivenire ad una disciplina generale e unitaria sull’informazione del consumatore. Questo stato del diritto dei consumatori come diritto speciale evidenzia soprattutto la mancanza di un sistema di regole generali suscettibile di determinare una “modifica” e un nuovo modo di intendere il contratto. Sembrerebbe muoversi in questa direzione, invece, la Proposta di direttiva sui “diritti dei consumatori”.

Ma l’attuale scelta comunitaria per la revisione dell’acquis e la creazione di un “minicodice” del consumo europeo, mantenendo una chiusura fra gli ordinamenti nazionali e europeo, non consentono di affrontare il problema dei rapporti fra diritto privato generale e diritto dei consumatori. D’altra parte, la Proposta di direttiva, non prevedendo l’intera regolamentazione di tutela dei consumatori, né coordinando la restante normativa, può costituire soltanto il punto di partenza per una completa e coerente revisione in termini di consolidazione; inoltre, accanto ad alcune regole comuni, essa conserva una separazione fra le regole specifiche per i singoli contratti (così i doveri di informazione e la trasparenza), e pertanto non può parlarsi ancora di una disciplina generale sui “contratti dei consumatori”, che costituisca una base idonea per una nuova concezione del contratto. Diversamente il progetto del Common Frame of Reference tenta di costruire in un sistema unitario, nonostante le ineliminabili differenze, la tradizione degli ordinamenti giuridici nazionali, espressa nei Principi di diritto europeo dei contratti e nei Principi di diritto europeo, con i Principi acquis: contiene il diritto generale dei contratti e il diritto speciale dei consumatori e affronta in tal modo il problema dei rapporti fra diritti nazionali e diritto comunitario, al fine di favorire l’apertura e il dialogo fra gli ordinamenti e ricercare il coordinamento e la conciliazione delle regole.

La questione centrale è pertanto quella di verificare se i principi e le regole di tutela dei consumatori siano compatibili con il diritto generale dei contratti. In particolare si devono esaminare due caratteristiche del diritto dei consumatori: la figura di “consumatore”, che contrasta con il principio di eguaglianza dei soggetti, e l’introduzione di norme imperative a favore del consumatore, che si discosta dal “principio dell’autonomia privata”. La previsione di peculiari strumenti di tutela, quali il controllo sul contenuto del contratto e i doveri di informazione trasparente, diretti a garantire la giustizia del rapporto, sembrerebbero allora non conciliabili con il principio della libertà contrattuale. La riflessione verte sulle ragioni che giustificano tali limitazioni. Per affermare la loro appartenenza al diritto privato generale, occorre stabilire se tali strumenti rappresentino una reazione alla disparità di potere dei soggetti oppure un rimedio al pregiudizio dell’autodeterminazione come libertà di decisione e libertà di determinazione del contenuto contrattuale.

L’analisi della disciplina tedesca sulle allgemeine Geschäftsbedingungen mostra che il controllo sul contenuto del contratto e il dovere di informazione trasparente, se considerati rimedi al pregiudizio dell’autodeterminazione del singolo, sono disancorati dal soggetto consumatore e da una disparità di potere e costituiscono, invece, delle manifestazioni del principio di buona fede come limite interno dell’autonomia privata e fonte di integrazione di doveri contrattuali, assumendo un ruolo centrale nella “evoluzione” del diritto dei contratti. Così inteso il diritto “dei consumatori” rappresenta una conferma dell’evoluzione del sistema, si rivela conciliabile con i principi generali e con il rinnovamento delle regole. La sua integrazione nel diritto privato generale riconduce ad unità il sistema e può portare ad una “europeizzazione” del codice nazionale nel segno di un’apertura delle regole, necessaria per costruire un diritto privato comune europeo.

 

 

Dott.ssa Sonja Haberl

Fino a poco tempo fa, nelle materie privatistiche, il divieto di discriminazione ha assunto rilievo, in linea di massima, limitatamente al diritto del lavoro. Solo di recente – con l’entrata in vigore del Trattato di Amsterdam e la successiva introduzione di una serie di regole, note come direttive della «nuova generazione» - i cosiddetti divieti di discriminazione «socio-politica» sono stati posti al centro dell’attenzione anche del civilista. Tra i motivi del ritardo dell’interessamento del divieto di discriminazione nei rapporti di consumo si collocano i timori di molti civilisti circa la produzione di intollerabili compressioni del principio di autodeterminazione: da non pochi, infatti, l’antidiscriminazione è ritenuta ben poco se non proprio per nulla conciliabile con il modello politico-giuridico di uno «Stato liberale di diritto», caratterizzato dal principio della libertà contrattuale; per altri, addirittura, rappresenta un principio da Stato totalitario.

Ad una più attenta lettura il divieto di discriminazione costituisce ben altra cosa: un principio in linea con le massime ordoliberali relativo all’inclusione nelle dinamiche mercantili di contraenti cui affidare il compito di assicurare il funzionamento del meccanismo concorrenziale. Più precisamente un principio perfettamente conciliabile con le caratteristiche della Privatrechtsgesellschaft – forma di organizzazione sociale nata in seno alle riflessioni ordoliberali – che si autoproclama «società aperta», e nella quale, di conseguenza, apparirebbe senza dubbio contraddittorio emarginare individui sulla base delle menzionate caratteristiche: il loro mancato accesso al mercato rappresenta una forma di fallimento dello stesso, ragione giustificatrice, quest’ultima, di interventi conformativi.

Sullo sfondo di queste considerazioni, l’esperienza tedesca si caratterizza, da un lato, per la vivacità del dibattito in cui si sono affrontati simili profili, e dall’altro per una attività legislativa particolarmente sensibile all’introduzione del divieto di discriminazione nelle relazioni tra privati: Infatti, la veemenza delle critiche in Germania si è fatta vieppiù intensa in ragione della scelta, operata dal legislatore tedesco in sede di attuazione della normativa comunitaria, di adottare uno strumento legislativo unitario all’interno del quale lo spettro della tutela antidiscriminatoria risulta notevolmente ampliato rispetto agli standard europei, nella misura in cui – non solo nel settore gius-lavoristico, ma anche in quello «civilistico» puro – contempla divieti di discriminazione riferiti ad handicap, religione, età e identità sessuale, oltre a quelli relativi a razza, origine etnica e genere (come si limita a stabilire il diritto comunitario). L’attività del legislatore tedesco è recente – la legge di attuazione è del 2006 – e tuttavia già fonte di primi interventi delle Corti. Ed è proprio l’analisi delle prime applicazioni giurisprudenziali che permette e contribuisce a ricostruire l’assunto qui sostenuto: vale a dire che le regole privatistiche di non discriminazione, almeno nella loro forma attuale, non rappresentano nulla più che un elemento di quel «quadro» normativo volto ad assicurare il regolare funzionamento della Privatrechtsgesellschaft.

 

 

Dott. Olindo Lanzara

Il dibattito intorno ai problemi del ritardo nei pagamenti aventi “titolo giuridico” nei contratti di scambio di merci o servizi verso un corrispettivo in danaro, di cui sono parti imprese e/o imprese e Pubbliche Amministrazioni, sembrava esaurito con il recepimento nel nostro ordinamento giuridico della direttiva comunitaria n. 35/2000, ed invece continua ad offrire numerosi spunti di riflessione. L’analisi appare ancora più interessante laddove l’indagine comparatistica, nel caso di specie particolarmente feconda, mette in chiaro le differenze e le affinità di fondo esistenti tra i vari sistemi giuridici.

Il respiro ampio della disciplina coniuga le considerazioni di analisi economica del diritto orientate al perseguimento di obiettivi di efficienza economica complessiva, con i principi costituzionali di solidarietà economica e sociale (art. 2 Cost.), la clausola generale di buona fede con la salvaguardia del dogma della certezza del diritto e le ragioni di policy. Il fil rouge del legislatore si dipana a livello infrasistematico e intesse trame giuridiche frutto della riflessione comunitaria sulla nozione allargata di impresa, della scelta di un collocamento delle Pubbliche Amministrazioni in posizione di pari ordinazione rispetto ai soggetti privati dell’ordinamento, delle riflessioni circa le differenze tra gli elevati tassi d’interesse di mora ed il contratto usurario, ed infine della previsione di misure coercitive per indurre all’adempimento degli obblighi fissati dal giudice (il riferimento si pone all’istituto dell’astreinte), e dell’individuazione di procedure di ricorso più efficienti e poco onerose dirette al conseguimento di titoli immediatamente spendili in sede esecutiva. La lotta ai ritardati pagamenti porta sul banco del giudice il dogma dell’intangibilità del contratto, ambito dal quale esso esce fortemente ridimensionato emergendo nel diritto comunitario il giudizio d’equità, foriero della giustizia del caso concreto.

Avanza la convinzione che la materia talvolta più che creare nuovi compartimenti del diritto, ne innerva diffusamente i tessuti connettivi laddove, ad esempio, contribuisce al fenomeno di erosione della distinzione tra attività imprenditoriale ed esercizio delle libere professioni rispondendo ad esigenze di tutela del credito tanto più avvertite quanto maggiori sono i ritardi di pagamento di cui si rendono autori sia le grandi imprese debitrici, sia le Pubbliche Amministrazioni.

Nel dettaglio, invertite le gerarchie tra vincolo negoziale e procedimento amministrativo, ritorna la centralità dei valori di correttezza e buna fede nell’adempimento.

Dai gangli del panorama brevemente descritto, la disciplina emergere con forza di effettività nel mondo dei traffici ove giuristi ed economisti si impegnano sul fronte comune della diminuzione dei market failures – nel caso di specie i ritardi di pagamento – per la tutela della competitività delle piccole e medie imprese danneggiate dalla grandi imprese debitrici. E’ questo il quadro che ha determinato un mutamento di prospettiva rispetto alle disposizioni del nostro codice ed alla normativa civilistica a quest’ultimo collegata pervase da norme ispirate ad un dichiarato favor debitoris.

Questi affascinanti traguardi inseguono la promessa di un universo giuridico economico in cui la libertà di stipulare contratti con un certo contenuto liberamente concordato tra le parti sappia riconoscere e denunciare il limite rappresentato dall’abuso di potere contrattuale, in cui l’autonomia privata in regime di concorrenza non venga distorta dalla presenza di concentrazioni di potere pubblico o privato.

Lo studio svolto tenta di dimostrare come la lotta ai ritardati pagamenti nelle transazioni commerciale, nata per gli obiettivi descritti, possa essere momento per aspirare ad un fine ulteriore, quello di creare in materia un unico ordinamento transnazionale capace di superare il particolarismo giuridico dei diritti nazionali. Il lavoro mette in vari punti in luce come per tale opera si attenda il contributo decisivo del comparatista svolto nella prospettiva della comparazione critica, ovvero della comparazione capace di rintracciare la soluzione più efficace, avanzata ed aderente alla struttura dell’Unione, anche se minoritaria nel diritto dei singoli Stati.

Prediligendo tali chiavi espositive si è compiuto un excursus “a volo d’angelo” che ha portato a ricordare come nel Late Payment of commercial debt (interest) act, dunque nel sistema inglese, siano nulle le pattuizioni che escludono o limitano l’obbligo di pagare gli interessi di mora, a meno che al creditore non venga offerto un rimedio adeguato in caso di mora del debitore.

Dagli spunti comparatistici è anche emersa una più viva consapevolezza della nostra identità giuridica; lontana dal nostro ordinamento è infatti la ratio dei punitive damages confliggenti con la funzione propria dell’interesse sul ritardato pagamento. Proprio rifuggendo da una logica punitiva del debitore si auspica il prossimo avvento di una dimensione giuridica che imponga un vincolo reciproco alla salvaguardia degli interessi essenziali della controparte.

 

 

Dott.ssa Anna Mastromarino

L’intervento vuole mettere in luce la stretta relazione che va delineandosi, in termini sempre più evidenti, tra il  diritto pubblico ed il riemergere delle diverse manifestazioni di rivendicazione identitaria, tanto nella loro espressione polietnica (frutto del sovrapporsi dei diversi flussi migratori), quanto nelle sue manifestazioni multinazionali (legate alla compresenza su un medesimo territorio di più gruppi autoctoni).

In questa prospettiva, il progetto liberale e il concetto di Stato nazionale, orizzonte entro il quale si muovono le democrazie contemporanee, non appaiono più come pienamente sufficienti a confrontarsi con le sfide poste su più fronti, dalla sempre crescente complessità delle società contemporanee. Negli ultimi anni, infatti,  la richiesta di trattamenti non discriminatori è andata di pari passo con il rinnovarsi delle dichiarazioni di appartenenza a gruppi ricompresi, ma non completamente coincidenti, con il corpo sociale statale, introducendo una dimensione collettiva, oltre che meramente individuale, del concetto di uguaglianza e di diritto al godimento delle libertà fondamentali. In particolare, il problema della “lotta per il riconoscimento” dei gruppi minoritari rispetto alla comunità statale, si presenta rispetto a quelle formazioni nelle quali il soggetto non si limita a transitare, conservando la propria individualità, bensì è coinvolto in un processo identificativo di tipo collettivo, che presuppone non tanto un atto di mera adesione spontanea alle attività comunitarie, quanto la volontà di partecipare al destino della formazione stessa, di cui si sente parte integrante e che avverte come parte integrante del proprio io. In questi casi, gli individui non si limitano a chiedere allo Stato un impegno rivolto alla cura dei loro interessi in forma diretta, ma sollecitano anche un intervento mediato, attraverso la valorizzazione del gruppo di appartenenza.

Rebus sic stanti bus, appare superfluo interrogarsi circa il diritto del diritto costituzionale a vantare legittima cittadinanza nel dibattito intorno alla società multiculturale: esso non solo deve concorrere a quel dibattito, ma  è altresì chiamato ad affrontare il tema dell’integrazione delle differenze sociali, culturali ed etniche in termini necessariamente istituzionali. L’ipotesi che possa non farlo appare come una falsa possibilità.

A partire dalle considerazioni della più recente dottrina sociologica ed antropologica secondo  cui i gruppi umani, anche quelli definiti in senso etnico e nazionale, sono inevitabilmente gruppi in continua trasformazione, questa prospettiva contribuisce a mettere in luce il ruolo determinante che il diritto pubblico potrà giocare nel processo performativo della identità della minoranza e nella soluzione dei conflitti e delle tensioni sociali. Se i cambiamenti cui è sottoposta l’identità dei gruppi umani sono determinati dall’ambiente, allora è innegabile che anche l’habitat pubblico potrà orientarne la definizione. Nel lungo periodo, la partecipazione agli spazi pubblici ed alle istituzioni statali possono attivare, infatti, processi di comunizzazione, rafforzando il consenso e il desiderio di vivere insieme e modificando la demarcazione di quelle linee di confine che abbiamo detto essere il limite invalicabile che definisce l’identità del noi.

Alla base di questo processo di integrazione si pongono due presupposti ineludibili: la volontà di mettere mano alla forma di Stato, nonché quella di ripensare anche in chiave territoriale l’organizzazione del potere centrale.

L’avvio di processi costituzionali in questo senso possono costituire un momento di partecipazione di tutte le forze sociali al fine di definire i confini di senso di una nuova società civica che nella Costituzione trova il proprio patto di convivenza e negli organi di governo locali (autonomia territoriale) e centrali riconosce i luoghi della decisione frutto della partecipazione di tutti, secondo l’idea per cui democratica no è la scelta che tutti condividono, ma quella che tutti hanno contribuito a determinare attraverso un confronto aperto.

Gli studi di diritto comparato mettono in luce una certa propensione degli Stati divisi da forti tensioni etnico-sociali, prevalentemente di tipo multinazionale, a intraprendere la strada del cambiamento attraverso l’avvio di processi di decentramento, caratterizzati per lo più da una spiccata tendenza alla differenziazione. In particolare pare vada assumendo una propria fisionomia (eziologica, strutturale, istituzionale…) sempre meglio definita il modello dello Stato federale per disaggregazione, distinguibile nella sua sostanza tanto dalla più tradizionale esperienza federale di tipo aggregativo, quanto dal paradigma dello stato regionale, al punto da poter aspirare a divenire esso stesso un nuovo “tipo” dello Stato contemporaneo.

Non di meno, anche quando le rivendicazioni dei gruppi di minoranza non si spingono sino  alla richiesta di autogoverno, il diritto costituzionale sembra ormai chiamato ad andare oltre politiche statiche come quella del mero riconoscimento dei diritti culturali a livello costituzionale, dovendo favorire dinamiche volte alla valorizzazione dei diritti di partecipazione nella definizione di policy come quelle relative all’istruzione, alla radio/telediffusione, all’uso delle lingue diverse da quelle nazionali, alla calendarizzazione delle festività, al governo delle pratiche religiose…Ciò partendo dalla consapevolezza che quella “benigna noncuranza” che nel  progetto liberale rappresenta l’obiettivo cui lo Stato dovrebbe tendere rispetto alle diverse inclinazioni degli individui o dei gruppi di individui, rappresenta un lusso che nessuno Stato pare davvero potersi permettere, dovendo quotidianamente fare i conti con l’espandersi di una funzione pubblica che pretende di essere intesa dai suoi destinatari e che aspira ad intercettare quotidianamente le loro richieste e che dunque impone l’assunzione di decisioni e di un modello comunemente riconosciuto come valido da tutta la comunità, a meno di non voler creare gruppi borderline che, non riconoscendosi nella società alla quale devono aderire, preferiscono rimanerne pericolosamente al margine, quando non inesorabilmente fuori, pur facendone materialmente parte.

 

 

 

 

Dott.ssa Graziella Romeo

Il paper si propone di analizzare in prospettiva comparata le legislazioni in materia di ingresso e soggiorno degli stranieri, nell’ottica di porre in rilievo le dinamiche evolutive della cittadinanza.

Il fenomeno migratorio, innescato e sostenuto dalla globalizzazione economica, produce «la progressiva trasformazione della cittadinanza, sia in senso giuridico che in senso sociologico, in modo altalenante, dal momento che in nome dei diritti umani e della tutela della diversità, da un lato si innescano guerre di secessione, e dall’altro si tende a ridimensionare il ruolo della cittadinanza e delle frontiere proprio in nome delle politiche di globalizzazione commerciale e finanziaria». La dialettica diritti umani/diritti di cittadinanza rappresenta la forza motrice di tale trasformazione e, talvolta, si risolve in sintesi originali, non prive di ambiguità. A ben vedere, si tratta di una dinamica esattamente opposta rispetto a quella che caratterizza la concorrenza tra ordinamenti sul terreno delle relazioni economiche. Gli Stati in questo caso si impegnano ad attrarre le persone giuridiche, soprattutto attraverso la leva dell’abbassamento del prelievo fiscale.

La riflessione delle scienze sociali ha riscoperto di recente l’attualità del concetto, convenendo tuttavia – pressoché unanimemente – sulla necessità di una sua ridefinizione capace di coglierne le mutazioni più recenti.

Nella storia del pensiero, la nozione in discorso si è nutrita dei contributi di diverse tradizioni disciplinari. In particolare, se l’idea che la cittadinanza sostanziasse un rapporto giuridico è stata al centro delle riflessioni essenzialmente dei soli giuristi, la condizione del cittadino e, dunque, il complesso delle posizioni giuridiche fondamentali riconosciute a coloro i quali siano membri a pieno titolo di una comunità, ha interessato anche i filosofi e i sociologi del diritto. Per costoro, a prescindere dalla nozione giuridico formale di cittadinanza, il termine in discorso riesce a acquisire senso soltanto se contempla l’attribuzione di un patrimonio di diritti fondamentali.

L’apporto delle differenti discipline alla tematica in oggetto si è svolto comunque prevalentemente su binari paralleli, non senza ingenerare talune distonie, in special modo nelle riflessioni più recenti. Così, gli uni hanno di frequente sottovalutato la tenuta del vincolo di appartenenza, intravedendo nella crisi degli elementi della teoria classica dello Stato (popolo, territorio, sovranità), la fine della cittadinanza. Gli altri hanno mostrato una tendenza a sovrapporre l’idea di cittadinanza e quella di diritti di cittadinanza, prendendo ad identificare tout court i diritti in generale con le posizioni giuridiche riconosciute nel solo alveo del rapporto di ascrizione del soggetto all’ordinamento.

Preferendo prescindere dalle conclusioni delle rispettive indagini, i sociologi hanno continuato a parlare di cittadinanza anche nel momento in cui i costituzionalisti e i filosofi del diritto hanno posto in discussione l’apparato concettuale di cui si erano serviti per analizzare il tema.

In questo contesto, l’apporto della comparazione, sul terreno della disciplina dell’immigrazione, può rappresentare uno strumento per comprendere se l’orizzonte concettuale disegnato dai principi dell’universalità dei diritti umani riesce effettivamente a guidare un processo di “ri-orientamento” del significato e dei contenuti della cittadinanza  in senso contemporaneo.

 

 

Dott. Antonello Tarzia

Problema comune a tutti gli ordinamenti che hanno aderito all’Euro è l’evidente asimmetria tra la centralità nel sistema finanziario dei livelli sub-statali di governo e la loro corresponsabilità nel controllo dell’indebitamento pubblico complessivo.

Trascurando che la responsabilità in sede europea è dello Stato, gli enti territoriali infrastatuali lamentano eccessive limitazioni alle scelte allocative conseguenti ad una più generale erosione dei poteri di spesa. Ciò sarebbe in netto contrasto con la comune tendenza al decentramento di funzioni frutto della ormai comune aspirazione alla ristrutturazione dei sistemi costituzionali-amministrativi secondo l’idea della democrazia di prossimità.

Il presente lavoro intende ricostruire i meccanismi di controllo della spesa pubblica adottati nei principali Paesi europei, ponendo in relazione il riconoscimento costituzionale del principio di autonomia nel quadro della forma di Stato (regionale o federale) con la comune tendenza al rafforzamento dei poteri governativi di controllo degli andamenti complessivi di finanza pubblica. In tale prospettiva, particolarmente rilevanti sono le sedi più o meno istituzionalizzate di negoziazione degli obiettivi annuali o pluriennali di finanza pubblica ed i sistemi di incentivi/sanzioni volti a spingere i livelli infrastatuali di governo alla loro realizzazione, fino al limite di rendere questi ultimi corresponsabili in caso di sanzioni derivanti da procedure di infrazione per disavanzi eccessivi.

 

 

Dott.ssa Noha Vardi

La realizzazione dell’Unione economia e monetaria europea ha impresso un’accelerazione ad un processo di integrazione dei mercati finanziari europei le cui basi sono state gettate di fatto a partire dagli anni ’70 dello scorso secolo. Tale processo di integrazione dei mercati tuttavia, si è sviluppato a  diverse velocità nei diversi settori; mentre alcuni indicatori economici e finanziari segnalano un processo ormai saldamente avviato dal punto di vista economico, laddove si può parlare di un mercato unico, dall’altro lato l’integrazione giuridica è tuttora ostacolata dalla presenza di c.d. barriere giuridiche. Pur rappresentando uno degli spazi in cui la globalizzazione si manifesta quotidianamente e sotto vari aspetti, i mercati finanziari costituiscono al tempo stesso una scena in cui il problema della assenza di disciplina legale uniforme o armonizzata ricopre un ruolo ancora centrale, dovuto in parte anche ad una serie di interventi settoriali e non coordinati, dettati dalle esigenze contingenti delle operazioni finanziarie transfrontaliere.

La questione dell’abbattimento delle barriere giuridiche presenta dei profili interessanti non solo per le scelte di regolazione necessariamente implicate nell’attuazione di una politica di integrazione, ma anche per i soggetti che -ufficialmente e non agiscono come attori che implementano l’armonizzazione delle regole sulle operazioni di mercato.

L’analisi delle fonti normative di regolamentazione delle operazioni tra privati permette di fotografare trasversalmente i vari piani che compongono il complesso edificio delle fonti che regolano i mercati finanziari. Si va dalla disciplina alla base di ogni operazione monetaria tra privati, ovvero la disciplina dell’obbligazione pecuniaria, nella sua vasta accezione comprendente la disciplina dei pagamenti ma anche quella degli strumenti finanziari, fino alle regole che governano le operazioni di regolazione dei pagamenti e dei titoli nei sistemi di pagamento interbancari.

Se si prende come esempio la disciplina delle obbligazioni pecuniarie, alcuni dei fenomeni citati emergono con evidenza. Innanzitutto, volendo esemplificare con le nozioni tipiche della civilistica che ha studiato le obbligazioni pecuniarie, si può riassumere dicendo che c’è stata una unificazione della lex monetae, mentre manca una armonizzazione della lex obligationis. Le conseguenze si riflettono ad esempio sulla efficacia del principio nominalistico ed il connesso problema della ammissibilità di clausole monetarie, con la conseguenza che se si trasferisce questo problema al livello del pagamento dei debiti sui mercati finanziari, potrebbe non essere del tutto indifferente dove il debito debba essere liquidato, compensato o scambiato (a tacer degli altri fattori, quali tassazione, legislazione bancaria e via dicendo, che possono condizionare una scelta di questo tipo).

Altri esempi di “barriere giuridiche” riguardano più specificatamente i meccanismi di funzionamento dei mercati finanziari ed in particolare le differenze nei sistemi di compensazione e di regolamento dei pagamenti e dei titoli.

Inoltre, l’analisi delle fonti che disciplinano le operazioni tra privati sui mercati finanziari permette di rilevare come il processo di globalizzazione favorisca una circolazione di regole, modelli e soprattutto di diverse forme normative (ad esempio la c.d. soft law), le quali ultime, essendo in gran parte creazione degli operatori di mercato, possono essere richiamate come “lex mercatoria finanziaria”. Anticipando fin da ora alcuni degli esiti dell’analisi, si possono rilevare importanti processi di denazionalizzazione delle fonti in questo settore e di privatizzazione delle regole pertinenti.

Va considerato, non da ultimo, il peso delle barriere giuridiche nella recentissima crisi finanziaria mondiale. Se da un lato tale crisi è dipesa da gravi lacune in materia di regolazione dei mercati e di supervisione (che esulano dall’oggetto di questo studio), dall’altro non va sottovalutato anche il peso dell’assenza di regole giuridiche armonizzate e trasparenti in materia di strumenti finanziari. Disparità che hanno permesso ad esempio che l’emissione di titoli cd. subprime travolgesse i mercati globali.

I profili da esaminare sono dunque da un lato la micro-disciplina della moneta, delle obbligazioni pecuniarie, e degli strumenti finanziari; dall’altro lato, il macro-contesto di integrazione dei mercati, la persistenza di barriere legali, e lo sviluppo di nuove fonti normative come conseguenza del trasferimento della sovranità politica e monetaria a seguito dell’Unione economica e monetaria europea.

 

 

Dott.ssa Annalisa Bitetto

In questo lavoro, l’endiadi option contract sarà utilizzata nell’accezione, ormai comune nel mercato statunitense, di contratto tipo con cui viene concesso ad una parte un periodo di tempo (non per accettare la proposta contrattuale di controparte rimasta vincolata irrevocabilmente, bensì) per ottenere, restituire (con o senza rimborso) o più semplicemente rifiutare la prestazione altrui, salvo l’obbligo di pagare un premio.

La definizione di option contract come gioco il cui esito dipende dall’abilità di una parte di far eseguire l’opzione lascia intendere quanto la scelta non risieda nel concludere, o non, il contratto, ma si dispiega tra ‘trade’ o ‘no trade’. Ancor più stringente (e dissacrante) è l’inquadramento degli option contracts tra i metodi alternativi di risoluzione delle controversie (c.d. ADR), che paradossalmente mette in luce la possibilità di stabilire per contratto a priori l’esito di un’eventuale attuazione patologica del regolamento d’interessi fissato dalle parti stesse.

 La letteratura giuseconomica americana impegnata sul tema degli strumenti atti a incentivare la stipulazione di contratti efficienti  ha mostrato come gli option contracts -- contratti semplici usati comunemente dalle parti – possano determinare efficienti investimenti e scambi dei beni in un’ampia gamma di circostanze. Il tutto nasce dalla comparazione -all’interno dei comuni rimedi all’inadempimento contrattuale- tra il risarcimento dei danni da aspettativa, da affidamento, l’esecuzione specifica e la liquidazione forfetaria anticipata dei danni, tenendo in debito conto che gli option contracts ed il risarcimento predeterminato del danno in caso di inadempimento sono essenzialmente due rimedi equivalenti. Un contratto con meccanismi opzionali, infatti, consegna ad una delle parti, poniamo il venditore, il diritto (ma non l’obbligo) di consegnare il bene in un determinato periodo di tempo. Il contratto, pertanto, specifica due pagamenti: il venditore riceve p1 se consegna il bene e p0  se sceglie di non scambiare il bene, dove p0 assume ovviamente valore negativo. Analogamente, nella stipulazione preventiva dell’ammontare dei danni per l’inadempimento, il contratto fissa un prezzo p1 che deve essere pagato dal compratore se la prestazione è adempiuta e i danni, (p0), che devono essere pagati dal venditore se non consegna il bene. Si sottolinea come un option contract ovvero la stipulazione di un ammontare predeterminato per il risarcimento dei danni da inadempimento disponga di due importanti caratteristiche:

a) è un meccanismo semplice che induce una parte a rivelare in modo veritiero importanti informazioni relative alle circostanze di fatto; quando solo un contraente deve fare uno specifico investimento sul contratto ed il prezzo dell’opzione è scelto correttamente, egli potrà contare sulle corrette informazioni che l’esercizio dell’opzione induce a rivelare ; e se l’opzione dovesse essere esercitata, vorrà dire che lo stato delle cose sarà risultato tale per cui è più proficuo esercitarla;

b) può essere utilizzato per riallocare il potere negoziale delle parti nel caso in cui sia prevista la possibilità di rinegoziare: questo effetto addizionale può essere usato per raggiungere l’efficienza anche se entrambe le parti devono fare un investimento ed è impossibile specificare dettagliatamente ogni caratteristica del bene che sarà scambiato in futuro.

Partendo dall’assunzione che determinare una liquidazione forfetaria anticipata del risarcimento è equivalente a dettare il prezzo di un’opzione – una funzione al di fuori del regno del diritto dei contratti –, non si può non concordare con parte della dottrina che propende: a) in mercati forti, ad imporre alle parti un’allocazione del rischio con la fissazione di risarcimenti del danno che tengano conto dei valori di mercato delle prestazioni; b) in mercati deboli, a proporre regole di default che dovrebbero incoraggiare le parti a prevedere esplicitamente diritti di risoluzione del contratto oppure, nel caso dei contratti dei consumatori, attraverso una regola dispositiva che conceda a quest’ultimi un’opzione di risoluzione a costo zero. In America il principale rimedio per l’inadempimento del contratto è una ricompensa in denaro per i danni patiti dalla vittima dell’altrui breach. La compensazione delle perdite subite è il principio che governa il diritto dei contratti e che disciplina i rimedi. Di conseguenza, la misura preferita per il risarcimento dei danni è quella che tiene conto dell’aspettativa, per cui il promissario riceve una somma di denaro sufficiente a renderlo indifferente tra la ricompensa e l’esecuzione specifica della prestazione. Questa misura è l’ammontare necessario a porre la parte lesa nella stessa posizione economica che avrebbe occupato se la prestazione fosse stata adempiuta.

Sebbene in via di principio le parti siano libere di predisporre preventivamente l’ammontare del risarcimento del danno qualora non ottemperino agli obblighi contrattuali, la dottrina maggioritaria, in materia di contratti, ordinando di attenersi alla regola della compensazione della parte lesa, ha impedito sia l’evoluzione di efficienti regole di default, sia di norme legali meno rigide che consentano la predisposizione di liquidazioni anticipate dei danni da inadempimento al di fuori delle strette maglie disegnate dalla penalty rule. D’altra parte, deve segnalarsi che il principio di compensazione è ignorato dall’analisi teorica, che si occupa di disegnare contratti efficienti e gioca un ruolo minoritario in gran parte dei contratti attualmente negoziati tra parti commerciali (c.d. business to business) o da quest’ultime adottati con i consumatori (c.d. business to consumers).

Se guardiamo al risarcimento del danno come al valore di un’opzione venduta dal promissario al promittente piuttosto che come al diritto di non adempiere e pagare i danni nella logica compensatoria, il diritto di non adempiere apparirà conseguentemente come un sottoinsieme di una più ampia categoria di diritti di risoluzione del contratto che concede ad un parte un’opzione per uscire dal contemplato scambio. Per esempio: a) garanzie generali, come la clausola ‘soddisfatti o rimborsati’, concedono al compratore simili opzioni; b) contratti per l’intero fabbisogno di produzione, ad acquisto rateale garantiscono ad una parte una sostanziale discrezionalità nel determinare la quantità del bene dedotto nel contratto; c) molti contratti, in fine, consegnano ad una parte il diritto di risolvere, cancellare il rapporto ovvero sostituire, restituire o riscattare il bene.

 

 

Dott. Antonio Las Casas

Il problema del fallimento della trattativa e della tutela delle parti verso i danni che esso possa aver loro cagionato, dal punto di vista dell’ordinamento italiano, viene ordinariamente descritto come un problema di “recesso ingiustificato dalla trattativa” e chiama immediatamente in causa la regola dell’art. 1337 del codice civile. Sulla base della disciplina che normalmente si trae dall’art. 1337, il fallimento della trattativa, in presenza di affidamento precontrattuale, porrebbe esclusivamente un problema che attiene alla tutela dell’interesse delle parti a non subire perdite ingiustificate in occasione della trattativa (e che verrebbe risolto essenzialmente sulla base del contenuto normativo del criterio della buona fede, dando luogo a rimedi collocati entro il terreno del c.d. interesse negativo).

Entro i sistemi di Common Law non esiste una regola di disciplina del comportamento precontrattuale delle parti espressa in termini di “buona fede”. Ciò induce talvolta anche ad affermare che entro tali sistemi non sarebbe configurabile alcuna dottrina della responsabilità precontrattuale che consenta di imputare responsabilità in dipendenza dell’abbandono della trattativa da una delle parti.

L’analisi casistica (condotta principalmente rispetto al diritto inglese e statunitense, con riferimenti anche al diritto australiano) consente, in realtà, di individuare due principali modelli di tutela del c.d. “affidamento precontrattuale” che operano entro i sistemi di Common Law pur in assenza di espresse ed autonome regole, diverse da quella della “libertà di contrarre”, volte a disciplinare il comportamento precontrattuale delle parti. Tali modelli trattano il problema dell’affidamento precontrattuale ora come problema che attiene alla tutela dell’interesse delle parti al conseguimento del risultato economico dello scambio finale (e sfociano perciò in rimedi commisurati al c.d. interesse positivo) ora come problema che attiene alla tutela dell’interesse delle parti a non subire perdite ingiustificate in occasione della trattativa (e sfociano perciò in rimedi commisurati al c.d. interesse negativo). In certi casi, cioè, l’interesse del soggetto danneggiato a causa del fallimento della trattativa viene tutelato, a certe condizioni, obbligando la sua controparte ad eseguire (in forma specifica o per equivalente) l’operazione economica rappresentata nella trattativa e non ancora resa espressamente vincolante mediante la conclusione del contratto. Si tratta perciò di un rimedio che va oltre il consueto ambito della responsabilità per “recesso ingiustificato dalla trattativa” e che si situa più correttamente sul piano dei rimedi, in senso lato, contrattuali. In altri casi, invece, l’interesse del danneggiato viene tutelato, a certe, diverse, condizioni, mediante rimedi che riconoscono il risarcimento dei costi subiti a causa della trattativa e divenuti inutili a causa del fallimento della stessa. Si tratta quindi di un rimedio sostanzialmente coerente con la nozione di interesse negativo.

Da quest’analisi deriva una prima conclusione che può presentare una qualche rilevanza dal punto di vista del diritto comparato: il problema del fallimento della trattativa riceve dai sistemi giuridici di Common Law un trattamento che in realtà, a dispetto delle affermazioni tradizionali, può dar luogo ad un qualche rimedio nei confronti del danneggiato. Tale acquisizione, in questi termini generali, per la verità, non è del tutto nuova per la dottrina comparatistica.

Occorre aggiungere, però, che tale trattamento giuridico del problema è variabile e solo in certi casi esso risulta coerente con una dottrina della responsabilità precontrattuale organizzata attorno ai concetti di buona fede ed interesse negativo.

Tale secondo aspetto richiede allora una spiegazione: o tale trattamento differenziato rappresenta una sorta di “imperfezione” dei sistemi giuridici di Common Law che, a causa della mancanza di una dottrina organica e coerente della responsabilità precontrattuale, non riuscirebbero a concepire dei rimedi che siano costantemente collocati nel terreno che sembra essere quello proprio di questa responsabilità, e cioè quello dell’interesse negativo; oppure è possibile in qualche modo spiegare e razionalizzare tale trattamento differenziato alla luce della ratio economica del principio di libertà di contrarre, che è un principio che caratterizza i sistemi giuridici occidentali e che rende simili, da questo punto di vista, i sistemi di Common Law a quelli europei continentali.

L’esigenza di sciogliere questo interrogativo induce a considerare con più attenzione i casi rinvenuti e ad interrogarsi sulla ratio economica di queste forme di tutela dell’affidamento precontrattuale individuate nei sistemi di Common Law. Gli strumenti dell’analisi economica del diritto si rivelano particolarmente fruttuosi da questo punto di vista. L’analisi economica consente, infatti, di razionalizzare tali acquisizioni, collegando i rimedi individuati alla presenza di un “investimento precontrattuale”, spiegandoli alla luce della “funzione economica” di tale investimento e dei rischi che esso implica per le parti e mettendoli in relazione con la ratio economica della libertà di contrarre. È possibile, in particolare, individuare due diverse tipologie di investimento precontrattuale che svolgono funzioni economiche distinte: l’investimento “performativo” (volto all’incremento del surplus dello scambio) e l’investimento “informativo” (volto ad acquisire informazioni utili al fine di decidere il “se” ed il “come” dello scambio). La diversità della funzione economica svolta da tali tipi di investimento può spiegare le diverse condizioni e la diversa portata dei rimedi individuati.

La comparazione giuridica e l’analisi economica consentono così di decifrare alcune “questioni” che il fallimento della trattativa e la tutela dell’affidamento precontrattuale pongono ad un sistema giuridico fondato sulla libertà di contrarre.

Ciò conduce ad indagare il problema del fallimento della trattativa e del c.d. affidamento precontrattuale entro il sistema italiano dal punto di vista della tutela dell’investimento precontrattuale e dell’imputazione dei rischi che esso implica. L’analisi del sistema italiano, così condotta, restituisce un quadro similmente articolato dove all’art. 1337 ed alla sua tutela risarcitoria con portata limitata all’interesse negativo, si affiancano, nel trattamento del problema del “fallimento della trattativa”, altri dispositivi con portata diversa. In particolare, il percorso seguito conduce ad affermare che anche nel diritto italiano, a dispetto della apparente generalità ed omnicomprensività dell’art. 1337 (che sembra la norma deputata a risolvere tutti i problemi precontrattuali), può riscontrarsi un trattamento giuridico variabile e differenziato del problema dell’investimento precontrattuale, che dà luogo a rimedi che tendono ora alla costituzione del vincolo giuridico all’esecuzione dello scambio, ora alla riparazione delle perdite subite a causa della trattativa.

 

 

 

Dott. Luigi Nonne

Lo studio che si intende prospettare prende le mosse dal considerare le riflessioni sul tema dell’attività contrattuale dell’imprenditore, con le quali si è  ipotizzata la rilevanza della categoria “autonomia d’impresa”, , distinta dall’autonomia privata, che consentirebbe di ampliare gli ambiti di liceità dei negozi inerenti alla suddetta attività. Più precisamente, ci si propone di verificare se i limiti alla libertà negoziale dei privati possano considerarsi meno rigorosi per chi eserciti l’impresa, essendo questa proiettata verso una funzione economica, il cui perseguimento può avvenire anche in deroga al diritto comune. Una simile ipotesi viene prospettata ricorrendo all’espressione “ricommercializzazione del diritto commerciale”, la quale si attuerebbe mediante la costruzione sistematica di un diritto privato dell’impresa (Unternehmensprivatrecht), che vada oltre i limiti disciplinari derivabili dalle codificazioni e dalle leggi speciali e sia produttivo di nuovi schemi, concetti e discipline. Nel settore negoziale, in particolare, vi sarebbe una marcata esigenza di superare determinati vincoli che i varî ordinamenti pongono, specie per quanto concerne i rapporti contrattuali nei mercati internazionali; in particolare ed esemplificando, per i sistemi causalisti vi sono difficoltà ad ammettere negozi tendenzialmente astratti, come i citati contratti e negozi unilaterali, se l’astrazione si intende come indipendenza della validità dell’attribuzione dai vizî della sua funzione economica.

Ci si propone, svolte in premessa le indagini sopra indicate, di corroborare la tesi della costruzione di un diritto privato dell’impresa col valorizzare l’elasticità delle fonti del diritto commerciale, la quale elasticità è discussa in chiave problematica relativamente alla c.d. Lex Mercatoria – intesa come rinascita in epoca moderna di un diritto universale degli scambi che riecheggia nella denominazione la sua origine medioevale – . Sotto il profilo comparatistico, appare sicuramente meritevole di approfondimento il confronto dell’ordinamento italiano anzitutto con sistemi vicini alla nostra tradizione culturale, che hanno affrontato il problema dell’autonomia del diritto commerciale ragionando sul tema della bipartizione dei codici.

Per quanto concerne, anzitutto, il sistema tedesco, possono individuarsi due tendenze contrapposte: a) da un lato, si invoca la costruzione di un diritto privato dell’impresa (c.d. Unternehmensprivatrecht) da intendersi come diritto privato dei rapporti esterni delle imprese; b) dall’altro lato, si nega l’autonomia concettuale del diritto privato d’impresa, sottolineando come, anche dopo la riforma dello HGB del 1998, il codice di commercio resti ancora fondato sul Kaufmannsbegriff e risolvendo il rapporto tra diritto civile e diritto commerciale in senso unitario. Quanto, poi, alla via seguita nell’ordinamento francese, ci si deve confrontare con la proposta di un autonomo diritto commerciale costituito nella forma di un diritto economico dell’impresa, che dovrebbe coesistere con il diritto civile, attribuendo a quest’ultimo quanto in esso non concerne la produzione e la distribuzione sociale della ricchezza. Di particolare interesse, inoltre, è l’approccio seguito dalla dottrina svizzera, in cui la questione relativa all’autonomia del diritto commerciale viene articolata in tre quesiti: i) sussistono in un determinato diritto positivo speciale regole legislative distinte per i commercianti (o per le attività commerciali) o per gli atti di commercio? ii) Queste regole sono sostanzialmente riunite in un proprio codice? iii) Esiste un diritto commerciale come concetto e come disciplina scientifica? La risposta alle prime due domande è data dal sistema adottato in Svizzera nel 1881, per cui le regole in discorso sussistono ma non sono riunite in un unico codice, essendo frammiste alla normativa civilistica, così come, in ordine al terzo quesito, sicuramente il diritto commerciale esiste sia sotto il profilo concettuale sia come disciplina scientifica.

Acquisiti i profili comparatistici sulla ricommercializzazione del diritto commerciale come autonomo diritto privato dell’impresa, l’analisi deve procedere ad individuarne le modalità di attuazione, sostanzialmente: a) mediante un’ampia opera riformatrice; b) tramite l’attività della giurisprudenza (ciò che sarebbe senz’altro coerente con le esigenze di adattabilità ai mutamenti del mercato proprie del diritto commerciale). Si pone, allora, il problema di individuare esplicitamente, nell’una o nell’altra ipotesi, uno strumento per i contraenti che volessero espandere i limiti del potere di autodeterminazione negoziale, che possa essere di ausilio al legislatore ovvero al giudice, a seconda che l’accento venga posto sull’intervento dell’uno o dell’altro formante. Lo studio delle codificazioni colte di diritto europeo (Principi Unidroit e Lando) dà precise indicazioni in tal senso, poiché in esse si è abbandonato, a questo proposito, il concetto di causa, privilegiando il riferimento alla natura o allo scopo del contratto. Essa sembra però ritornare, anche se con diversa veste formale, nella disciplina della fattispecie contrattuale, come strumento di soluzione di problemi sempre attuali. Nei casi in cui si assiste ad una compressione di questo requisito, si pone peraltro il problema di giustificare l’espansione del potere negoziale dell’imprenditore: allora, e in questi limiti, può rientrare in gioco la c.d. autonomia d’impresa, che completerebbe lo strumentario operativo di cui ci si può avvalere per soddisfare le esigenze disciplinari dell’operatore economico.

 

 

 

Dott. Filippo Viglione

Uno dei terreni privilegiati del confronto comparatistico tra sistema contrattuale di common law e di civil law è costituito dagli strumenti di interpretazione del contratto. Tradizionali ricostruzioni di microcomparazione hanno messo in evidenza la particolare propensione dei giuristi anglosassoni per una attività ermeneutica sul contratto fortemente ancorata al dato letterale, non incline a considerare elementi extratestuali e rigorosamente caratterizzata dalla diffidenza verso qualsiasi forma di riequilibrio giudiziale dell’assetto di interessi delineato dai contraenti. In contrapposizione, si è ravvisato un comune atteggiamento negli ordinamenti di civil law, volto a ricercare la comune intenzione dei contraenti anche al di là del testo contrattuale, offrendo rilievo anche a dati extratestuali e consentendo talora l’ingresso di istanze riequilibrative del regolamento contrattuale. In tale prospettiva, l’analisi dei mezzi di interpretazione del contratto ha costituito anche uno dei momenti di emersione delle differenze sistematiche tra diversi modi di intendere il contratto stesso.

Una nuova ricerca condotta su tale argomento richiede, pertanto, di essere giustificata su di un duplice piano: da un lato, le certezze nella contrapposizione manichea tra metodi di interpretazione del contratto in common law ed in civil law sembrano vacillare di fronte a recenti correnti dottrinali e giurisprudenziali che vanno diffondendosi in entrambi i sistemi considerati, e che paiono prescegliere la tematica dell’interpretazione contrattuale quale adeguato spazio per una convergenza tra modelli giuridici. D’altro lato, anche le sollecitazioni europee per l’armonizzazione del diritto dei contratti inducono a riflettere su quale sia, oggi, il reale significato dei metodi di interpretazione del contratto, scorto al di là delle mere declamazioni formali ed analizzato dunque sulla base delle concrete regole operazionali diffuse nei vari ordinamenti giuridici.

L’importanza del tema sembra essere confermata dal particolare interesse che attorno ad esso si è creato nell’ultima decade, interesse tangibile nella innumerevole serie di saggi, anche a carattere comparatistico, che vi sono dedicati, specialmente nel mondo anglosassone. Il classico sasso nello stagno è stato gettato con la sentenza della House of Lords Investors Compensation Scheme nel 1998, nella quale si ravvisa un vero e proprio Restatement delle principali tecniche di interpretazione contrattuale, e con la quale si sono dovute confrontare la dottrina, alla ricerca di una sistemazione concettuale coerente, e la giurisprudenza, in un difficile equilibrio tra regole tradizionali e nuove esigenze della contrattazione. Del resto, l’interpretazione del contratto è divenuta oggi, in tutti gli ordinamenti considerati, una delle principali tecniche di risoluzione delle controversie in materia contrattuale, oltre ad essere un punto di osservazione dal quale è possibile distinguere, più nitidamente che altrove, le istanze anche di politica del diritto che sorreggono l’odierno discorso attorno al diritto dei contratti.

Sulla base di tali premesse, la ricerca muove le proprie mosse dal passaggio nel diritto inglese dal letteralismo al contestualismo, valutando quale ruolo abbia giocato in tale prospettiva il tema fondamentale della tutela dell’affidamento e quale spazio sia concesso all’interpretazione ragionevole delle dichiarazioni negoziali. Parallelamente, si rende necessario dare conto dei nuovi sviluppi che hanno coinvolto il mondo dei contratti negli ordinamenti di civil law, colpiti, secondo una suggestiva immagine, da una rivoluzione che ha condotto al centro del sistema la buona fede, anche interpretativa, a discapito dell’autonomia contrattuale. Ciò dischiude le porte ad un possibile percorso dell’ermeneutica contrattuale che attribuisce agli organi giurisdizionali ampi poteri di controllo sull’equilibrio dell’accordo, evidenziandosi così chiare nervature politiche ed economiche delle soluzioni tecniche coinvolte. Ragionevolezza, buona fede, tutela dell’affidamento paiono le coordinate fondamentali su cui costruire il discorso intorno all’ermeneutica contrattuale, la cui conformazione è destinata ad influenzare la generale concezione del contratto che viene delineandosi nel panorama giuridico europeo.

 

 

 

Dott. Fausto Caggia

Il paper analizza i caratteri con cui si sta manifestando la disciplina comunitaria dei rapporti familiari transfrontalieri. Allo stesso tempo esso vuole formulare una proposta ricostruttiva applicabile alla disciplina delle relazioni familiari sia tra soggetti con cittadinanza di diverso Stato membro dell’Unione Europea sia tra soggetti di uguale cittadinanza italiana. Sul terreno della formazione positiva di un diritto comunitario della famiglia, il Regolamento (CE) 2201/2003 del Consiglio del 27 novembre 2003, in materia di competenza, riconoscimento ed esecuzione delle decisioni sull’annullamento, separazione e divorzio ed in relazione alla responsabilità genitoriale persegue l’obiettivo di favorire la circolazione dei soggetti e delle decisioni in materia familiare all’interno dello spazio definito dall’Unione Europea. Il tentativo di realizzare questa finalità viene perseguito adottando un metodo materiale di determinazione della competenza giurisdizionale con la fissazione di criteri tra loro alternativi sulla base di legami personali del soggetto con l’ordinamento di un determinato Stato membro (si v. in part. 3 Regolamento 2201/2003); allo stesso modo, il Regolamento produce una riduzione dei margini di controllo del giudice nazionale nell’ipotesi di decisione in materia familiare adottata da altro giudice di uno Stato membro (si v. in part. art. 25 Regolamento n. 2201/2003), così che anche il limite dell’ordine pubblico dev’essere concretizzato non soltanto tenendo conto dei principi propri dell’ordinamento nazionale ma anche delle libertà e dei diritti fondamentali tutelati dall’ordinamento comunitario (art. 22 dello stesso Regolamento). Le proposte di riforma del Regolamento n. 2201/2003 sono ora orientate ad allargare il suo ambito di applicazione riconoscendo un più ampio svolgimento dell’autonomia dei soggetti nella scelta del giudice del conflitto e della legge applicabile al divorzio ed alla separazione dei coniugi. Una politica di favore per le libertà di circolazione e di valorizzazione delle diverse cittadinanze di Stati membri godute da un soggetto viene realizzata anche dalla giurisprudenza della Corte di giustizia. La Corte comunitaria ha affermato il principio del mutuo riconoscimento nel favorire la circolazione di uno status personale e familiare, definito da una regola di uno Stato membro di cui un soggetto è cittadino, indipendentemente se l’ordinamento nazionale del giudice chiamato a riconoscere ammetta o meno quella regola (si v. nell’ipotesi di riconoscimento della regola di attribuzione al figlio del cognome paterno e materno, Corte di Giustizia, 2 ottobre 2003, C-148/02, Garcia Avello; orientamento confermato in Id., 14 ottobre 2003, C-353/06, Grunkin e Paul c. Standesamt Niebül). I diversi modelli adottati nella circolazione comunitaria degli status personali e familiari meritano di essere valutati non soltanto nella prospettiva della realizzazione delle politiche d’integrazione europea ma anche domandandosi se i principi e le regole formulate siano legittime alla luce dei diritti fondamentali garantiti dall’Unione Europea ed in particolare di quelli contenuti nella Carta dei diritti fondamentali. L’analisi delle norme fondamentali in materia familiare, unitamente lette ai principi generali del diritto comunitario della famiglia e alle libertà di circolazione, permette inoltre di formulare una proposta ricostruttiva orientata ad ampliare lo svolgimento dell’autonomia dei soggetti nella scelta del diritto applicabile al regime dei rapporti coniugali. Ci si può, infatti, domandare se l’indirizzo della vita familiare possa determinarsi anche nell’applicazione di regole o istituti familiari di ordinamenti di altri Stati membri ai rapporti personali e patrimoniali. Allo stesso modo, questa prospettiva ricostruttiva può mostrare utilità nel risolvere positivamente il problema del riconoscimento del matrimonio omosessuale o della convivenza registrata conclusa in un altro Stato membro.

 

 

 

Dott. Alberto Maria Febbrajo

Negli ultimi anni, i sempre più complessi processi di integrazione europea hanno portato al progressivo abbandono del tradizionale schema gerarchico, di matrice kelseniana, ed alla contestuale adozione di un modello costituzionale eterarchico (N. Walker 2002; J.H.H. Weiler 2003) , maggiormente in grado di dare conto delle interazioni tra i diversi centri di produzione ed interpretazione del diritto. Per questa impostazione, l’evoluzione del diritto europeo risulterebbe basato sul continuo “dialogo” (A. Stone Sweet 1998) tra operatori del diritto di diversa formazione e cultura giuridica. In altri termini, il diritto europeo sarebbe un “diritto dei giuristi” o, nella terminologia utilizzata da Eugen Ehrlich, un Juristenrecht. Tale impostazione può contribuire ad interpretare le modalità con le quali i paesi dell’Europa centrale e orientale di recente adesione all’UE si siano inseriti in tale contesto; modalità che risultano ad oggi ancora poco indagate.

Il processo di adesione alla UE, pur avendo determinato, attraverso la recezione dell’acquis comunitario, profondi cambiamenti sul piano legislativo, non ha sempre comportato, a livello costituzionale, modifiche formali significative, risultando ancora in vigore numerose disposizioni in potenziale contrasto con il riconoscimento della piena applicabilità delle norme comunitarie.

Se paragonate alle leggi fondamentali dei paesi occidentali, le Costituzioni dei nuovi membri della UE si caratterizzano per una maggiore enfasi accordata ai concetti di “sovranità” ed “indipendenza” (A. Albi 2005); concetti che in tali contesti hanno assunto un valore simbolico particolarmente elevato non soltanto come reazione alla omologazione sociale e culturale subita durante il periodo di influenza sovietica, ma anche come fattori centrali di sviluppo delle identità nazionali dell’Est europeo, profondamente radicate nella cultura costituzionale pre-comunista, anche per i lasciti culturali dei diversi Imperi che in passato avevano dominato tali regioni.

Data l’assenza di significative riforme costituzionali prima dell’adesione alla UE non sorprende come nella fase successiva siano state le Corti costituzionali dei paesi post-socialisti ad assumere un ruolo fondamentale nel delicato compito di trovare un bilanciamento tra la necessità di riconoscere il proncipio di sovranità condivisa nel quadro dell’Unione Europea e l’esigenza di salvaguardare la sovranità nazionale, inserendosi in un dibattito costituzionale già avviato dagli Stati Membri “occidentali”, particolarmente vivacizzatosi con la nota sentenza Maastricht del Bundesverfassugsgericht.

La presentazione si soffermerà su una analisi della recente giurisprudenza costituzionale dei paesi dell’Europa centrale ed orientale di recente adesione alla UE, con particolare attenzione per alcune significative decisioni rese dalle Corti Costituzionali di Polonia, Repubblica Ceca e Romania.

I temi trattati saranno: la “copertura costituzionale” per una eventuale limitazione della sovranità ed il primato del diritto della UE; l’eventuale elaborazione di una dottrina simile a quella dei “controlimiti” elaborata dalla Corte Costituzionale italiana; il margine di discrezione nel dichiarare la incostituzionalità di atti legislativi di implementazione della normativa comunitaria, nonché la ricorrente questione relativa alla determinazione della corte in grado di detenere la c.d. “competenza della competenza (Kompetenz der Kompetenz).

Muovendo dal presupposto che gli ordinamenti menzionati, con l’ingresso nella UE, abbiano concluso la fase della c.d. “transizione post-socialista” (S. Bartole 1993; A. Linz, J. Stepan 1996) – contraddistinta dalla ricezione formale di modelli giuridici esterni – e siano entrati in una fase di integrazione nella quale il diritto UE viene recepito anche mediante il recupero di alcuni aspetti della cultura giuridica pre-comunista, si tenterà di dare una compiuta illustrazione dell’emergere, in ciascun paese, di una propria interpretazione delle implicazioni giuridiche del processo di integrazione europea.

 

 

 

Dott. Gianluca Gentili

A partire dagli anni settanta del XX secolo, negli Stati Uniti, gli organi giurisdizionali statali e federali hanno instaurato tra loro un nuovo tipo di rapporto, definito di “New Judicial Federalism” (NJF). Questo ha rappresentato un cambiamento significativo nel diritto costituzionale statunitense, spostando l’attenzione per la tutela dei diritti fondamentali dal livello federale di governo a quello dei singoli Stati dell’Unione.

I presupposti storico-giuridici del NJF si rinvengono nella “selective incorporation” del Bill of Rights federale all’interno del XIV emendamento, e nel mutamento radicale operato dalla Corte suprema federale alla fine degli anni sessanta del XX secolo nell’approccio interpretativo al Bill of Rights. Nel prendere atto del progressivo ritrarsi della Corte Burger dalla protezione ampia delle libertà civili promossa dalla Corte Warren – che, come tale, aveva sollecitato una ricerca di tutela giurisdizionale dei diritti esclusivamente sul piano federale – Justice Brennan, in un saggio pubblicato nel 1977, invocava una riscoperta delle libertà civili codificate nelle costituzioni statali affinché le Corti supreme statali, attraverso un’interpretazione espansiva, fornissero ai propri cittadini una tutela più ampia di quella federale. Gli Stati divenivano “laboratori” in cui le corti avrebbero idealmente sperimentato soluzioni volte alla promozione di un più esteso livello di tutela dei diritti. La tutela si sarebbe estesa poi gradualmente, attraverso fenomeni di cross-judicial fertilization, da uno Stato all’altro dell’Unione, mentre un livello minimo uniforme di protezione sarebbe stato garantito dall’interpretazione – vincolante a livello nazionale – del Bill of Rights federale operata dalla Corte suprema USA.

Il risultato è stato la crescente partecipazione delle Corti supreme statali ad una nuova dinamica multilivello, e lo sviluppo di una giurisprudenza costituzionale statale distinta e indipendente da quella federale in tema di diritti. Superato il concetto di nazionalizzazione dei diritti, si è promossa una visione delle garanzie decentrata e specifica per ogni singolo stato. Il NJF ha inoltre favorito la recente nascita e l’affermarsi di studi in tema di state constitutionalism, oggetto oggi di crescente attenzione da parte della dottrina costituzionalistica statunitense ed europea, quest’ultima storicamente portata a studiare il costituzionalismo americano prevalentemente sul solo piano federale. La dottrina ha quindi valorizzato le disposizioni delle Costituzioni statali che, rispetto al testo del Bill of Rights federale, proteggono diritti di seconda e terza generazione e studiato il diverso articolarsi in queste del concetto di sovranità. Comparando questo nuovo modello di tutela dei diritti con quello disegnato dagli articoli 52 e 53 della Carta di Nizza, il contributo per il convegno analizzerà le fasi di sviluppo del NJF, proponendo anche un bilancio dell’esperienza.

La dottrina statunitense in tema di state constitutionalism ha individuato tre fasi di sviluppo del NJF: 1) Nascita e affermazione, in due momenti simbolo: a) la decisione People v. Anderson in cui Corte suprema della California dichiarava incostituzionale la pena capitale sulla base di un’interpretazione autonoma ed estensiva del divieto di pene crudeli o inusitate contenuto nella Costituzione statale[1]; b) la decisione Michigan v. Long[2] in cui si affermano il principio del adequate and independent ground ed i limiti che la Corte suprema federale incontra nella revisione delle decisioni delle Corti supreme statali. 2) Reazione al NJF: in alcuni Stati dell’Unione inizia un’ondata di revisioni costituzionali, poste in essere tramite constitutional initiatives con due fini principali: inserire in Costituzione disposizioni che limitino le garanzie costituzionali così come individuate estensivamente dalle Corti supreme statali (per ultimo vedi Proposition 8 in California); imporre il c.d. lockstep approach, che obblighi le Corti supreme statali ad ancorare l’interpretazione di disposizioni costituzionali statali a quella di analoghe disposizioni del Bill of Rights federale così come operata dalla Corte suprema USA. 3) In tempi più recenti, accanto alla cross-judicial fertilization orizzontale tra Stati, gli studiosi auspicano un maggiore dialogo verticale, tra Corti supreme statali e Corte suprema federale volto all’identificazione di efficaci soluzioni a problemi comuni.

 

 

 

Dott.ssa Maria Cecilia Paglietti

A compimento di un lungo percorso normativo (avviato nel 1976 con la DIR. 768 ) il 30 novembre 2009 l’Unione ha adottato il Regolamento 1223 (in vigore dal 2016) che abroga le numerosissime (55) Direttive verticali precedenti, assumendo dunque un approccio orizzontale volto alla creazione di una disciplina unica dei CTP (cosmetics, toilettries e perfumes: rimangono quindi esclusi i contratti di servizio estetici e quelli di lavoro, che insieme formano il droit de la beautè -così come definito nell’ordinamento che vanta la più risalente tradizione giuridica ed economica in materia). Come noto l’intervento dell’UE in determinati settori si giustifica quando in ragione della tutela della salute e della sicurezza (alimenti, medicinali), quando della concorrenza (consumatori). In quest’ottica i cosmetici si collocano in una posizione intermedia, poiché in essi le ragioni di tutela della salute coesistono con quelle tipicamente consumeristiche (asimmetria di potere, obblighi informativi, pubblicità ecc.).

I cosmetici, infatti, sono prodotti diversi dai medicinali (severamente disciplinati, tanto da configurare un settore regolamentato: DIR. 2001/83) ma per alcuni aspetti affini (riguardo alle pericolosità del prodotto per la salute). Allo stesso modo, vanno tenuti distinti dalla categoria dei presidi medico-chirurgici (over counter products). Essi, dunque, hanno originato una normativa eclettica, composta di elementi pubblicistici e privatistici, in cui l’aspetto cruciale è la definizione di cosmetico (molto ampia -art. 2a Reg.- e comprensiva di lungo elenco di esemplificazioni, nonché di liste positive e negative di ingredienti specifici: rimane tuttavia un problema la qualificazione dei prodotti cc.dd. borderline: es. anticellulite, antiacneici) dal momento che la distribuzione del prodotto è oggetto di regimi differenti a seconda della sua qualificazione. Nel caso dei cosmetici l’immissione nel mercato non è soggetta ad un controllo preventivo (il sistema di controllo è in-market), al contrario di ciò che accade per i medicinali.

Quello dei cosmetici costituisce dunque un settore regolato da una disciplina che con il Regolamento 1223 attenua la precedente impostazione pubblicistica (considerata la libertà di accesso al mercato) bilanciandola però con l’enfatizzazione della dimensione privatistica (e segnatamente consumeristica) del rapporto consumatore/professionista.

Grande rilevanza, infatti, viene riconosciuta all’accesso dei consumatori all’informazione (intesa nel duplice senso di informazione quantitiva e qualitativa), ponendo a carico del produttore severi obblighi informativi, di etichettatura e trasparenza nonché di parziale predeterminazione del contenuto del contratto (dettagliate indicazioni sulla data di scadenza, sulla rintracciabilità del prodotto e del produttore, sugli effetti indesiderati) ricorrendo alle classiche tecniche consumeristiche di protezione del consenso. In caso di violazione, è tuttavia assente l’indicazione della sanzione, riproponendo i medesimi dubbi ricostruttivi che hanno agitato la dottrina dei mercati finanziari sulla distinzione tra regole di comportamento e regole di validità. La dimensione consumeristica riguarda anche la disciplina della pubblicità, regolata dalla norme comunitarie in materia di pubblicità ingannevole (v. art. 20 Reg. e la significativa quantità di pronunce della Corte di Giustizia in merito). Anche il piano della responsabilità ex delicto è governato dalle tutele consumeristiche poichè, fermo il richiamo al principio di precauzione (36° considerando del Reg.), la responsabilità per danno da cosmetici viene tradizionalmente ricondotta nell’alveo di quella per prodotti difettosi.


 


[1] 493 P.2d 880 (Cal. 1972). Diversamente da quanto previsto dal VIII emendamento del Bill of Rights federale che prevede un divieto di pene crudeli ed inusitate.

[2] 463 U.S. 1032 (1983)