Abuso di dipendenza economica

 

 

 

1. Iter legislativo

 

L’art. 9 della Legge 18 giugno 1998, n. 192 (Disciplina della subfornitura nelle attività produttive) vieta l’abuso di dipendenza economica. La vicenda che ha condotto all’introduzione di tale espresso divieto nel nostro ordinamento è stata – come è ormai noto – particolarmente articolata e complessa.

Essa, infatti, ha preso le mosse da un disegno di legge della XII legislatura che, nel disciplinare la subfornitura, qualificava come abuso di posizione dominante (e non – si badi bene – dell’altrui dipendenza economica), ai sensi dell’art. 3 della L. 10 ottobre 1990, n.287 (Norme per la tutela della concorrenza e del mercato, c.d. legge antitrust),  alcuni comportamenti posti in essere dai committenti dotati di una posizione di maggiore forza contrattuale rispetto ai subfornitori e pregiudizievoli per questi ultimi.

L’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato in un parere del 20 giugno 1995, pur ammettendo che «l’obiettivo di garantire, attraverso la disciplina del contratto di subfornitura, una maggiore trasparenza e certezza nelle transazioni commerciali tra imprese appar[iva]  meritevole di una valutazione positiva dal punto di vista della tutela del funzionamento del mercato», si dichiarò contraria all’estensione dell’ art. 3 (Abuso di posizione dominante) della legge antitrust. Ciò perché: a) la figura della posizione dominante rispondeva a canoni suoi propri che non era opportuno modificare (alla luce anche del fatto che l’art. 3 discendeva direttamente dall’art. 82 [già 86] del Trattato); b) le ipotesi di dominanza relativa, quali quelle che si verificavano nella subfornitura, non integravano sempre gli estremi della posizione dominante definita alla stregua dei suddetti canoni; c) qualora si fosse ritenuto che l’efficiente funzionamento del mercato potesse dipendere anche da una maggiore equità nei rapporti contrattuali di subfornitura, si sarebbe dovuto fare ricorso all’introduzione di una disciplina che seguisse canoni diversi da quelli della posizione dominante, così, come, peraltro, già avveniva in altri paesi per l’appunto in relazione alle situazioni di dominanza relativa.

Risultava fin troppo chiaro il riferimento alla figura dell’abuso dell’altrui dipendenza economica. Tale figura, infatti, in altri ordinamenti è contemplata all’interno delle discipline antitrust, ed è volta a disciplinare proprio i rapporti in cui uno dei soggetti, pur non avendo ciò che viene definita “posizione dominante sul mercato”, risulta in posizione di forza relativa.

Il suggerimento di individuare una figura diversa da quella dell’abuso di posizione dominante e (apparentemente) in grado di rappresentare «un ulteriore elemento costitutivo di un efficiente funzionamento del mercato» venne diligentemente accolto, durante la XIII legislatura, dai redattori dei nuovi disegni di legge (S. 637 e S. 644), poi unificati in un unico testo, in materia di subfornitura. Ed in vero, in questi apparve l’esplicito riferimento alla figura dell’abuso di dipendenza economica, figura che – come venne puntualmente sottolineato nelle Relazioni ai disegni di legge – trova quale «referente comparatistico ...il paragrafo 26, comma 2, secondo periodo [ora § 20, comma 2], della normativa antimonopolistica tedesca (GWB), ripresa dal legislatore francese nell’art.8, lettera b), dell’ordinanza 1° dicembre 1986, n.1243 [ora art. L. 420 – 2 del Code de commerce]» .

Anche in relazione al progetto unificato l’AGCM espresse, in data 11 febbraio 1998, parere negativo. E ciò fondamentalmente perché mentre le norme antitrust avrebbero avuto quale scopo la protezione del processo concorrenziale in relazione all’as­setto del mercato, la disciplina sull’abuso di dipendenza economica avrebbe potuto anche prescindere da questa finalità.

Il legislatore del 1998 ha accolto l’obiezione dell’AGCM ed ha collocato la norma sull’abuso di dipendenza economica all’interno della disciplina della subfornitura. L’art. 9 (Abuso di dipendenza economica) della L. 18 giugno 1998, n.192 (Disciplina della subfornitura nelle attività produttive), già prima della modifica, disponeva, infatti, quanto segue: «1. È vietato l’abuso da parte di una o più imprese dello stato di dipendenza economica nel quale si trova, nei suoi o nei loro riguardi, una impresa cliente o fornitrice. Si considera dipendenza economica la situazione in cui un’impresa sia in grado di determinare, nei rapporti commerciali con un’altra impresa, un eccessivo squilibrio di diritti e obblighi. La dipendenza economica è valutata tenendo conto anche della reale possibilità per la parte che abbia subito l’abuso di reperire sul mercato alternative soddisfacenti. 2. L’abuso può anche consistere nel rifiuto di vendere o nel rifiuto di comprare, nella imposizione di condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose o discriminatorie, nella interruzione arbitraria delle relazioni commerciali in atto. 3. Il patto attraverso il quale si realizzi l’abuso di dipendenza economica è nullo».

 

2. La modifica del 2001.

 

A circa un anno e mezzo dall’emanazione della legge sulla disciplina della subfornitura nelle attività produttive, la Commissione Industria, Commercio e Turismo (10a) del Senato si è riunita per verificare lo stato di attuazione e di efficacia della stessa, così come era stato previsto in fase di approvazione.  In quella sede è emerso che i maggiori problemi interpretativi ed operativi della disciplina riguardavano l’art.1 (Definizione del contratto di subfornitura) e l’art.9 (Abuso di dipendenza economica). In particolare, in relazione all’art. 9, è stato ricordato che «nella impostazione originaria della legge sulla subfornitura, tale fattispecie era destinata ad essere inserita, non a caso, nell’ambito delle disposizioni regolatrici della concorrenza. E ciò sia perché già presente in altri ordinamenti in ambito comunitario (Repubblica federale tedesca e Francia), sia perché appariva evidente come essa si prestasse ad essere attivata, in quanto strumento di tutela, soprattutto d’ufficio da una istituzione terza rispetto ai rapporti di forza delle parti. La configurazione nell’ambito del diritto civile, a cui si è invece pervenuti a seguito dell’indicazione dell’Antitrust, ne comporta l’azionabilità esclusivamente nell’ambito del giudizio civile, ad iniziativa di parte; ciò ne limita di fatto la praticabilità per le imprese interessate che, trovandosi in stato di dipendenza economica, difficilmente potranno portare allo scoperto gli eventuali abusi delle controparti: l’interesse delle imprese subfornitrici in dipendenza economica a protrarre il rapporto piuttosto che a distruggerlo nel conflitto giudiziario è lapalissiano. Questo punto, fortemente evidenziato dalle organizzazioni di rappresentanza delle piccole imprese e confermato dai dati da esse fin qui forniti, dovrebbe indurre a ripensare ad una ricollocazione della norma nella sua sede naturale, rimettendo l’ordinamento in linea con i modelli giuridici europei (si sono aggiunti nel frattempo anche quello greco e portoghese) che già conoscono norme antitrust sull’abuso di dipendenza economica». Sembra evidente che il problema delle organizzazioni di rappresentanza delle piccole imprese fosse proprio quello, già segnalato dalla dottrina, dell’attribuzione della competenza ad un organo che potesse intervenire a prescindere dall’impulso di parte, pena l’inefficacia dei rimedi.

La volontà di dare risposta alla suddetta istanza è stata perseguita attraverso la presentazione (in data 16.02.2000) di due emendamenti ad un disegno di legge che disciplinava l’apertura e la regolamentazione dei mercati.

Il primo emendamento era volto, ancora una volta, a modificare l’art. 3 della legge 10 ottobre 1990, n.287, mentre il secondo era volto a modificare l’art. 9 attribuendo un ruolo all’AGCM e prevedendo la possibilità di ottenere davanti al giudice ordinario tanto tutela inibitoria quanto tutela risarcitoria.

Quest’ultimo emendamento è stato approvato, cosicché i primi due comma dell’art. 11 della L. 5 marzo 2001, n. 57 (Disposizioni in materia di apertura e regolazione dei mercati) per l’appunto, hanno modificato l’art.9  della L. 18 giugno 1998, n.192. Ed invero essi hanno: a) individuato quale organo designato a conoscere delle azioni in materia di dipendenza economica, comprese quelle inibitorie e per il risarcimento dei danni, il “giudice ordinario competente”; b) attribuito all’Autorità garante della concorrenza e del mercato, qualora questa ravvisi che un abuso di dipendenza economica abbia rilevanza per la tutela della concorrenza e del mercato, e ferma restando l’eventuale applicazione dell’art.3 della L. 10 ottobre 1990, n.287, il compito di procedere alle diffide e sanzioni previste dall’articolo 15 della disciplina antitrust, nei confronti dell’impresa o delle imprese che abbiano commesso tale abuso, e ciò anche su segnalazione di terzi e a seguito dell’attivazione dei propri poteri di indagine ed esperimento dell’istruttoria.

 

3. I dubbi interpretativi dopo la riforma.

 

L’art. 9 della L.192/1998 ha certamente risentito del complesso iter legislativo descritto sopra. La disciplina in esso contenuta sembra essere, infatti, di non facile lettura.

L’intervento del 2001 ha lasciato, in ogni caso, irrisolte molte delle questioni interpretative su cui la dottrina si era interrogata.

In particolare non sembra risolta le questione relativa all’ambito di applicazione della disciplina. Questa, infatti, pur essendo collocata all’interno di una legge che disciplina un preciso fenomeno, che è quello della subfornitura, ha un tenore letterale tale da consentire di ritenere che si possa applicare a qualsiasi rapporto commerciale fra imprese.

Né sembra risolta la questione relativa alla determinazione della fattispecie. Più specificamente il legislatore del 2001 non ha affrontato né la questione relativa a ciò che debba intendersi per dipendenza economica, né l’altra relativa alla specifica individuazione dell’abuso.

La dottrina non ha finora raggiunto una posizione unitaria nell’individuazione del soggetto che possa dirsi in stato di dipendenza economica. La formula utilizzata non è, in vero, chiarissima: «Si considera dipendenza economica la situazione in cui un’impresa sia in grado di determinare, nei rapporti commerciali con un’altra impresa, un eccessivo squilibrio di diritti e obblighi. La dipendenza economica è valutata tenendo conto anche della reale possibilità per la parte che abbia subito l’abuso di reperire sul mercato alternative soddisfacenti». Come si vedrà meglio in seguito si possono distinguere almeno tre posizioni in relazione alla soluzione di questo problema interpretativo. Secondo la prima di queste, condizione di rilevanza dell’abuso sarebbe solo l’assenza di alternative soddisfacenti per la parte che subisce l’abuso. Per la seconda, opererebbero (quanto meno anche) criteri diversi da quelli espressamente richiamati dalla norma. Secondo un’ultima posizione, condizione di rilevanza dell’abuso sarebbe il mero verificarsi di questo. Dubbi in ogni caso sono sorti in merito a ciò che debba intendersi per “alternative soddisfacenti”.

Con la riforma non appare risolto neanche il tema che più ha appassionato la dottrina: l’individuazione della disciplina della invalidità del patto attraverso il quale si realizza l’abuso di dipendenza economica. Come è noto, e come si dirà meglio dopo, ci si è a lungo interrogati sull’opportunità della scelta operata dal legislatore del 1998, che si esprime, come si ricorderà, in chiave di nullità del patto attraverso il quale si realizzi l’abuso di dipendenza economica. La nullità, infatti, secondo molti risulterebbe incompatibile con il tipo di interesse protetto.

Il legislatore del 2001 sembra, invece, avere fornito una risposta chiara circa la possibilità per l’impresa che subisce l’abuso di ottenere tanto tutela inibitoria quanto tutela risarcitoria.

La dottrina, in vero, non aveva mai dubitato che la vittima dell’abuso potesse ottenere il risarcimento del danno, mentre dubbi si avevano in merito alla possibilità per la stessa di ottenere tutela inibitoria. Ciò perché – come è noto – nonostante numerosi tentativi di individuare un fondamento all’atipicità dell’inibitoria, non può dirsi si sia raggiunta unanimità di vedute sul punto.

 

 

 

4. Ambito di applicazione dell’art. 9 della Legge 18 giugno 1998, n. 192

 

L’art. 9 della L. 192/198 disciplina espressamente solo i rapporti fra imprese. Non risulta chiaro, però, se la disciplina in esso contenuta possa essere applicata anche a rapporti diversi da quelli di subfornitura, così come definiti dall’art. 1 della L.192/1998.

Il dubbio nasce dalla circostanza che l’art. 9 della L.192/1998, pur essendo collocato, per l’appunto, all’interno della disciplina sulla subfornitura, ha un tenore letterale tale da consentire di ritenere che si possa applicare anche ad ipotesi diverse. La prima parte del primo comma del suddetto articolo dispone, infatti: «E’ vietato l’abuso da parte di una o più imprese dello stato di dipendenza economica nel quale si trova, nei suoi o nei loro riguardi, una impresa cliente o fornitrice».

Proprio facendo leva sul dato letterale, ed in particolare sull’uso dell’espressione “cliente”, anziché “committente” così come avviene nella rimanente parte della disciplina della subfornitura, oltre che sull’assenza nel testo e nella rubrica dell’art.9, dell’espressione “subfornitura”, la assoluta maggioranza della dottrina ha correttamente affermato che «la portata del precetto di cui all’art. 9 va .. oltre la subfornitura».

Anche i lavori preparatori, d’altra parte, sembrano spingere in tal senso. Ed in vero mentre gli articoli contenuti nelle prime proposte di legge erano palesemente legati alla subfornitura, e a questa figura era originariamente legata la riflessione sull’opportunità politica di tutto l’intervento normativo nel suo complesso, via via, al fine di giungere alla modifica dell’art. 3 della L.287/1990, si è giunti ad un’estensione della fattispecie rilevante. Non sembra, poi, che si possa ragionevolmente sostenere, analizzando tali lavori, che il mancato innesto della disciplina all’interno della normativa antitrust sia derivato dalla volontà di limitare al fenomeno della subfornitura l’ambito di applicazione dell’articolo.

Un ulteriore dato a conforto della tesi secondo la quale la disciplina di cui all’art. 9 della L.192/1998 possa essere applicata anche ad ipotesi diverse da quelle relative alla subfornitura sembra potersi ricavare dalla circostanza che in tutti gli altri ordinamenti (cui il legislatore ha fatto riferimento nella redazione della norma) la figura della dipendenza economica non risulta in alcun modo circoscritta ai soli rapporti di subfornitura .

La circostanza che l’art.9 sia inserito all’interno della disciplina sulla subfornitura non sembra idonea a far prospettare una diversa soluzione. Ed in vero, la disciplina sull’abuso di dipendenza economica si mostra in ogni caso non in linea con l’intero impianto della legge, se non altro perché protegge espressamente anche il cliente (committente) e non solo il fornitore (subfornitore) come avviene nella rimanente disciplina. Un’interpretazione che limitasse al solo rapporto di subfornitura l’ambito di applicazione dell’art. 9 non sarebbe più rispettosa dell’assiologia dell’intera disciplina di quanto possa esserlo un’interpretazione che estende tale ambito anche a rapporti diversi. L’unica interpretazione rispettosa della ratio dell’intero impianto della 192/1998, e cioè quella che limitasse l’ambito di applicazione della norma a protezione del solo subfornitore, si rivelerebbe in contrasto con il chiaro dato letterale e, pertanto, sarebbe inaccettabile.

Alla prospettiva secondo la quale l’art. 9 possa essere esteso anche al di là dei rapporti di subfornitura non pare possa obiettarsi che essa «condurrebbe (sotto il profilo del controllo sull’abusività di clausole contrattuali) ad una disciplina per le imprese in una situazione contrattuale «debole» irragionevolmente più favorevole rispetto a quella prevista a tutela dei consumatori ... [creando così]  un’asimmetria nella tutela di contraenti considerati più deboli, il consumatore in un caso e l’impresa dipendente economicamente nell’altro, dove quello dei due che sicuramente necessita di maggiore tutela (il consumatore) ne riceve di fatto di meno». A tale obiezione è agevole, infatti, replicare che pur ammesso che non possano rinvenirsi ragioni che giustifichino il diverso trattamento fra imprese e consumatori (e come vedremo così non è), l’eventuale “asimmetria di tutela” permarrebbe anche limitando l’ambito di applicazione alla sola disciplina che riguardi i rapporti di subfornitura fra imprese.

Nei casi sin ora pubblicati la giurisprudenza si mostra divisa sul punto. Anche se sembra prevalere l’impostazione restrittiva.

 

 

5. La dipendenza economica.

 

L’art. 9 della L. 192/1998 definisce la dipendenza economica come quella «situazione in cui un’impresa sia in grado di determinare, nei rapporti commerciali con un’altra impresa, un eccessivo squilibrio di diritti e obblighi. La dipendenza economica è valutata tenendo conto anche della reale possibilità per la parte che abbia subito l’abuso di reperire sul mercato alternative soddisfacenti».

Non esiste in dottrina unanimità di vedute circa il modo di interpretare tale formula.

Secondo un primo filone, l’unica parte rilevante della disposizione sarebbe la seconda, cosicché condizione di rilevanza dell’abuso sarebbe solo l’assenza di alternative soddisfacenti per la parte che lo subisce.

Per un secondo filone, l’uso dell’ «anche» da parte del legislatore (la dipendenza economica è valutata tenendo conto anche ..) espliciterebbe che condizione di rilevanza dell’abuso possa essere non solo l’assenza di alternative soddisfacenti ma anche altro. In altre parole, il criterio dell’assenza delle alternative soddisfacenti non sarebbe l’unico su cui possa fondarsi la sussistenza della dipendenza economica.

Secondo un terzo filone, condizione di rilevanza dell’abuso sarebbe il mero verificarsi di questo.

Quest’ultima impostazione non può certamente essere accolta perché antiletterale: la norma non vieta l’abuso in sé ma l’abuso dell’altrui dipendenza economica e definisce quest’ultima.

L’ultima parte della disposizione del primo comma dell’art. 9 riproduce quasi alla lettera il disposto francese, che a sua volta discende da quello tedesco.

Ciò ha fatto sì che la dottrina non abbia dubitato della circostanza che l’espressione soddisfacente debba essere intesa, al pari di zumutbar ed équivalente, come possibilità per l’impresa di rimanere competitiva sul mercato se costretta al cambiamento di partner.

Relativamente all’«anche» può dirsi che esso evidentemente serve a collegare l’ultima parte del primo comma con quella immediatamente precedente. Per il legislatore condizioni di rilevanza dell’abuso sono tanto l’assenza di alternative soddisfacenti per la parte che subisce l’abuso, quanto la possibilità di un’impresa di determinare un eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi nei rapporti commerciali con un’altra impresa.

Il problema che si pone è allora quello di capire quale sia il contenuto da dare a quest’ultimo parametro, posto che sembra chiaro che l’attenzione risulti spostata sul versante dell’impresa forte.

L’esperienza tedesca e quella francese aiutano a svelare il senso della disposizione.

Tanto in Germania quanto in Francia, la giurisprudenza ha ritenuto di poter accordare protezione all’impresa che non avesse alternative soddisfacenti (o equivalenti) solo qualora l’impresa “forte” avesse contribuito a creare la situazione di dipendenza, o attraverso l’acquisizione di potere di mercato (seppur non assoluto) a attraverso la stipula di contratti precedenti (esempio).

In altre parole, tanto in Germania quanto in Francia, ai fini dell’individuazione della dipendenza economica si è prestata attenzione anche alla posizione dell’impresa forte.

Lo stesso ha fatto il legislatore italiano. Non ha senso ritenere che questi nella parte del disposto in commento abbia voluto solo descrivere la situazione complementare a quella in cui versa l’impresa cui mancano le alternative soddisfacenti. Ha senso invece ritenere che, al pari di quanto avviene negli ordinamenti presi a modello, abbia voluto attribuire rilevanza alla partecipazione dell’impresa forte alla costruzione dello stato di dipendenza, cosicché la norma dovrebbe essere letta come “situazione in cui un’impresa si sia messa in grado di determinare”.

 

6. Le singole fattispecie di abuso

 

Il rifiuto di vendere o di comprare va inteso in senso lato (non come rifiuto di concludere contratti di compravendita in veste di compratore o di acquirente bensì) come rifiuto di intrattenere rapporti commerciali con un’impresa cliente o fornitrice.

Il divieto serve a proteggere anche il c.d. new comer. Vale a dire chi prima di allora non ha intrattenuto rapporti con l’impresa dominante, o addirittura entra per la prima volta in quel mercato.

L’ipotesi dell’interruzione può essere assorbita dalla precedente previsione.

L’ipotesi di abuso che più ha sollecitato l’attenzione della dottrina è quella relativa all’imposizione di condizioni contrattuali gravose o discriminatorie.

È bene premettere che la dottrina, correttamente, non dubita che anche i prezzi rientrino all’interno delle “condizioni contrattuali”, ed invero non vi è ragione alcuna per escludere il corrispettivo dall’ambito di applicazione della norma.

La questione relativa al contenuto del divieto di cui si discute è particolarmente controversa.

Secondo un primo orientamento la misura prevista dal secondo comma dell’art. 9 dovrebbe essere individuata dal giudice facendo riferimento alla riflessione dottrinale che ha condotto all’elaborazione dei Principi Unidroit, che prevedono una norma (art. 3.10) dal tenore simile a quella di cui all’art. 9.

Per un secondo orientamento il criterio di valutazione dello squilibrio rilevante sarebbe dato dalla buona fede in senso oggettivo. Buona fede intesa «come criterio di valutazione a posteriori del comportamento di un soggetto, affidato al giudice e destinato a realizzare il contemperamento di opposti interessi nelle circostanze del caso concreto».

Secondo un terzo orientamento dottrinale la valutazione dell’ingiustificata gravosità di cui al secondo comma dell’art. 9 dovrebbe avvenire facendo riferimento all’elenco contenuto nell’art. 1469 bis, e ciò, oltre che per identità di ratio fra le due discipline, soprattutto in ragione della «sostanziale equivalenza tra il «significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto», che connota la vessatorietà della clausola secondo l’art. 1469-bis, e «l’eccessivo squilibrio di diritti ed obblighi», che, per l’art.9 della legge sulla subfornitura è indice di abuso di «dipendenza economica»».

Secondo un quarto orientamento dottrinale la norma in commento dovrebbe essere ricondotta all’ambito dell’equità di cui all’art. 1374 c.c.. All’interno di tale orientamento è possibile distinguere fra chi ritiene che la misura dell’abuso risulti dal bilanciamento di interessi operato alla luce di valori di mercato, e chi fa riferimento a valori concorrenziali. In altre parole, sempre facendo riferimento all’art. 1374 c.c., c’è chi sembra proporre di individuare la misura tenendo conto anche della situazione in cui versa la singola impresa e chi sembra optare per parametri più oggettivi, senza però spiegare  a quale tipo di mercato occorra guardare.

Per risolvere correttamente la questione credo si debba svolgere un diverso tipo di argionamento.

L’art. 9, infatti, nelle individuazione della misura dell’abuso per noi rilevante riprende alla lettera il disposto dell’art. 3, lett. a), che a sua volta discende dall’art. 82 del Trattato, e ciò costituisce un primo dato che induce a ritenere che la misura non possa che essere la stessa.

A ciò si aggiunga che i lavori preparatori chiariscono in modo inequivocabile che il legislatore intendeva modificare l’art. 3 solo in relazione alla definizione della situazione di potere rilevante, e non certo in relazione alla misura.

Sicché nell’interpretare la norma occorre fare riferimento ai parametri elaborati in relazione a quella disciplina. Così la misura selezionata dalle parti dovrà essere considerata abusiva se diversa da quella praticata su mercati geograficamente diversi aventi uguale struttura ma su cui operi la concorrenza (anche imperfetta). A nulla rileverà l’eventuale inefficienza dell’impresa forte, e non servirà un’enorme sproporzione perché l’abuso possa dirsi integrato.

In assenza di mercati aventi le caratteristiche suddette si potrà fare ricorso a tutti quei criteri di adattamento sopra approfonditamente analizzati.

Se si accetta la prospettiva suddetta si dovrà dire che lo squilibrio normativo rileva solo se si traduce in uno squilibrio economico, e che perde ogni significato l’idea di stilare un elenco, ancorché non tassativo, di clausole abusive o non abusive, giacché sarà il mercato a dire cosa è abusivo e cosa non.  

 

 

7 I rimedi

 

La dottrina sembra avere unanimemente escluso che la norma preveda la nullità dell’intero contratto. Ed invero la lettera della legge sembra far propendere in tal senso giacché è disposta la nullità del patto e non dell’intero contratto.

Escluso che la disposizione di cui all’art. 9 della L. 192/1998 imponga la nullità dell’intero contratto, la dottrina ha cominciato ad interrogarsi sul se quest’ultimo risulti comunque caducabile in ragione dei principi generali dell’ordinamento, ed in particolare in forza del primo comma dell’art. 1419 c.c. secondo il quale: «La nullità parziale di un contratto o la nullità di singole clausole importa la nullità dell’intero contratto, se risulta che i contraenti non lo avrebbero concluso senza quella parte del suo contenuto che è colpita dalla nullità».

Parte di essa ha risposto in senso affermativo al superiore quesito. E’ evidente che ritenere applicabile il primo comma dell’art. 1419 c.c. significa accettare che nella maggioranza dei casi l’intero contratto sia caducato, poiché è plausibile credere che la clausola nulla risulti essenziale nell’economia dell’accordo. Per evitare ciò alcuni autori hanno proposto, seppur in chiave dubitativa, di interpretare il primo comma dell’art. 1419 c.c. in senso oggettivo. Hanno ritenuto cioè che la nullità della clausola possa estendersi all’intero contratto solo quando «il rapporto tra tale clausola e le altre disposizioni del contratto sia oggettivamente caratterizzato da un’interdipendenza tale da escludere che il contratto possa sopravvivere senza la clausola nulla». Si è, in ogni caso fatto notare, per certi versi correttamente, come il problema della mancata protezione della parte debole (interessata più al mantenimento del contratto) sia destinato a ridimensionarsi in ragione del risarcimento dei danni cui la parte lesa dall’abuso avrebbe comunque diritto.

Sempre movendosi nell’ottica dell’applicabilità della disciplina generale in materia di nullità contenuta negli artt. 1418 ss. c.c., parte della dottrina ha ritenuto che la nullità di cui all’art. 9 della L.192/1998 possa essere fatta valere da chiunque abbia interesse e possa essere rilevata d’ufficio dal giudice ex art. 1421 c.c.

La soluzione secondo la quale la nullità del patto di cui all’art. 9 della L. 192/1998 sarebbe disciplinata dagli artt. 1418 ss. c.c. ha lasciato perplessa la maggioranza della dottrina. Tale prospettiva è apparsa, infatti, non in linea con la tutela della parte debole che il suddetto art. 9 intenderebbe, invece, nel complesso apprestare. Si è proposto, pertanto, di ritenere non applicabile il primo comma dell’art. 1419 c.c., così da avere una sorta di nullità parziaria necessaria, e di considerare l’invalidità stessa “relativa”. Altra parte della dottrina ha proposto di applicare l’art. 1339 c.c.

Anche se è stato sostenuto in dottrina, non sembra che si possa aggiungere a sostenere un vero e proprio obbligo a contrarre.